giovedì 11 agosto 2011

La Madonna pellegrina ieri e oggi, tra Fede e devozione popolare



Un fenomeno in parte dimenticato




La Madonna Pellegrina ieri e oggi




Pietà popolare ed intensa devozione alla Vergine madre che decenni fa erano diffusissime, ora
appaiono trascurate, se non tra i singoli gruppi – Necessità laica del ritorno a tali forme -
 
Appare singolare, nello scorrere gli eventi culturali in senso lato delle ultime settimane, quanto poco o punto si noti la vitalità del culto mariano, un tempo precipua caratterizzazione del popolo il quale usa dirsi cristiano, e cattolico. Da questa parte fervettero sino a decenni or sono, intense devozioni le quali trascinavano torme di folla, anche la più distante da qualsivoglia idea di religiosità, ai piedi della Vergine Santa, della Grande Madre, di Maria "Regina Caeli" e "Regina Missionum", genitrice dell’Uomo che fu detto il Re dei Re. E’ singolare ma spiegabile: la pervasione del laicismo, non dell’esprit laico, ha talmente snaturato molte contrade della vecchia Europa, sin nel cuore della medesima Roma culla del Cattolicesimo, che da parte delle figure eminenti, dai politici alle star cinematografiche, sembra quasi ci si vergogni di mostrare una certa devozione mariana. Eppure, la recente beatificazione di Papa Giovanni Paolo II, che era un ardente innamorato della Madonna, avrebbe dovuto far sperare l’opposto: ma appunto, si tenne la celebrazione –come è stato scritto, con evidente intento- di un uomo che era un Papa: non della "Tota pulchra", non della Madre del Dio, che i bambini, quelli così indirizzati dagli educatori e dai genitori, invocano nella bellissima canzoncina: "O mamma del Cielo, io non so pregare, so solo dirti, che ti voglio amare; ascolta il mio cuore, io lo do a te, per esser tuo, mammina del Cielo…"
Per fortuna, dagli Istituti religiosi ai nuclei delle famiglie (più o meno regolari o allargate, nel mòto normale e fluido della attuale società: sempre famiglie però, connotate dalla triade sacra uomo donna figliolanza) si continua ad alimentare, ed il mese maggiolino o delle rose o mariano ne estrinseca le manifestazioni, anche minime, una certa qual forma di pietà devozionale al culto della Madonna: è il ‘rito’ –non strutturato teologicamente, ma più bello forse per questo- del passaggio della Madonna pellegrina, per le case dei devoti fedeli che la accolgono, riunendo in tale occasione i vicini, per la recita del Rosario, e delle annesse preghiere. Affermiamo sia una fortuna in senso affatto obiettivo e laico: anche i più ardenti zelatori dell’anticristianesimo infatti dovrebbero auspicare, per la salvezza psichica della struttura sociale o di quel che di essa rimane, il culto della Vergine Madre sempre più diffuso a livello microcosmico, strada maestra per il cammino nel macrocosmo: come avvenne decenni fa, in occasione delle celebrazioni giubilari mariane.
Poiché è probabile che non molti rammentino il fatto che il culto popolare della cosiddetta Madonna pellegrina, che è la statuetta riportante le fattezze (la più simile al vero, disse la veggente Suor Lucia) della Bianca Signora apparsa a Fatima nel 1917, nasce nel secondo dopoguerra, per impulso precipuo di colui che più di tutti fu nel XX secolo il Pontefice mariano per eccellenza, ovvero Pio XII il principe Pacelli, preparando la strada all’Anno Santo del 1950, alla proclamazione del dogma dell’Assunzione che a novembre di quel giubileo fu annunciato, e poi all’Anno Mariano del 1954. I successori, particolarmente il Beato Papa Giovanni XXIII, marcarono con enfasi l’orma pacelliana, sino alle ‘anomalìe’ senza dubbio sincere, epperò personalistiche, di Giovanni Paolo II. L’attuale Pontefice, anch’egli ardente cultore della Madonna, anche qui nella sua versione ‘nera’ ovvero Templare, della zona bavarese di Altòtting, sta con acutezza cercando di riportare il culto mariano alle sue vere radici. Non può far tuttavia più di tanto per la precisazione ‘cristoogica’ imposta dai documenti del Concilio Ecumenico Vaticano II definiti dal 1965 in poi; e nondimeno, è laudevole il suo tentativo. Mentre negli anni di cui si fece poc’anzi memoria, ferventi di ardentissima devozione mariana, era un susseguirsi per tutto il mondo di pellegrinaggi della Madonna nella sua forma visibile, dall’Europa all’Asia e soprattutto all’Affrica: le memorie dei Missioonari in tal senso, infarcite di episodi miracolistici, sono ampie esemplari e molto eloquenti. Se si legge, e alcuni volumi ne parlano con fervore, con quale commozione e passione i popoli pagani e mussulmani (si ricordi che l’Islàm ha una perfetta affezione per Maryam, la vergine madre di Isa, Gesù), protestanti e persino ebrei, accogliettero in quegli anni precedenti il decolonialismo la Regina del Cielo dal Mozambico all’Angola, dal Sudafrica al Tanganica, dalla Rodhesia all’Etiopia (ove Maryàm è particolarmente tenuta in considerazione), sino all’Egitto (sulle orme della Mamma del Redentore, sotto il palmeto che li accolse nella evangelica fuga dalla Giudea: e dove c’è a Porto Said la chiesa dedicata alla Regina del Mondo), fino a Bengasi, Tripoli dove era la cattedrale della Madonna della Guardia (oggi moschea: e purtanto devastata dal conflitto..) ed Algeri dove regna la chiesa di Nostra Signora dell’Africa: se si immagina codesto pellegrinaggio davvero intenso e prolungato, che proseguiva poi sino alle vastissime contrade dell’India (a Goa la Madonna pellegrina entrava attraverso le acque, ‘stella maris’, a dorso di un enorme cigno) sino al musulmano Pakistan, per le Americhe del Sud e del Nord; se si aggiunge che ciò avveniva in anni in cui v’erano solo i cinegiornali ed i giornali e la radio e non molto diffuse le TV via cavo, e tuttavia quanto immensa sia stata la mariana partecipazione laddove chiunque, anche il più lunge da visioni religiose, vòlle portare il proprio omaggio alla Madre comune, ci si rattrista alquanto nel constatare l’assenza di tale denso zelo missionario, principalmente da parte di coloro, sacerdoti e consacrati, i quali ne avrebbero il dovere e l’investitura; poscia, si constata come, se l’abbujarsi dei tempi impone ben altre forme di consacrazione diremmo nefasta (se non satanica), per qualche misteriosa via il culto devozionale della Madonna pellegrina resiste nei paesini, nelle case accoglienti dei fedeli, nell’opera attenta e seria delle Suore di alcuni Istituti, diffondendo con serietà e secondo la Tradizione, quel culto che ha radici ancestrali, poiché poggia nel cuore intimo stesso dell’Umanità intiera.
"Non è già, non è solo l’Angelo del Signore: è la Regina degli Angeli, che uscendo nelle sue immagini taumaturgiche dai più celebri santuari della cristianità e nominatamente da questo santuario di Fatima, ove il Cielo ci ha concesso di coronarla "Regina Mundi", percorre in visita giubilare tutti i suoi domini… sotto il materno sguardo della celeste Pellegrina non ci sono antagonismi di nazionalità o razza che dividono, non diversità di frontiera che separano, non contrasti di interessi in urto; ma tutti per qualche momento si sentono felici di sentirsi fratelli": così Pio XII nel radiomessaggio del 13 ottobre 1951. In nome di Nostra Signora si è fratelli, appunto: e tale fratellanza (la quale nell’Egitto del 1952 di Neguib e poi di Nasser vide la statua della Madonna portata al Cairo dall’automobile dell’ambasciata Russa: ed in URSS c’era Stalin… accadesse oggi qualcosa di simile! E non ci risulta…) risuona limpidissima nel Magnificat: "Ecce enim ex hoc beàtam me dicent omnes generatiònes", ogni stirpe; "dispérsit supèrbos mente cordis sui, depòsuit poténtes de sede, et exaltàvit hùmiles": solo Lei gli umili esalta, poiché alla Regina del Cielo nulla è impossibile, e nel cuore suo gli ultimi sono più luminosi, di coloro che apparentemente credono di essere dei re. Gli umili veri, naturalmente.
 
Bar.Sea.



(Pubblicato su Sicilia Sera n°339 del 31 luglio 2011)


Nella foto, la Madonna pellegrina ospitata in una devota casa

martedì 3 maggio 2011

Premio Salvo Basso 2011



Riceviamo e volentieri pubblichiamo, in ricordo di Salvo Basso, che rammentiamo con simpatìa.

martedì 26 aprile 2011

Chi era il primo Re d'Italia, Vittorio Emanuele II



Le celebrazioni dei 150 anni d’Italia


Chi era Vittorio Emanuele II, il Re Galantuomo che unì la Patria


Necessaria la precisazione, ora che anche la repubblica lo ha onorato, che il primo capo di stato
fu sovrano costituzionale e moderno – Ottima impressione dalla casa reale inglese -
 
Abbiamo assistito, un po’ ovunque in Italia, alle feste celebrative del 150° anniversario dell’Unità nazionale; alle manifestazioni di piazza, è stato festeggiato il Presidente della Repubblica (ora in carica è Giorgio Napoletano), il quale come da carta costituzionale, è il simbolo della coesione nazionale. Le folle agitanti il tricolore, ébbero l’istinto più che la consapevolezza razionale: l’Unità della Patria è normale e bello debba essere festeggiata nelle ricorrenze: ma non è colpa della gente se essa non fu del tutto consapevole –per una disinformazione artatamente costrùtta- che l’anniversario è della proclamazione del Regno d’Italia, e quindi della scaturigine monarchica del nostro stato: l’Unità nazionale si compì sotto l’egida, sotto il sigillo della "bianca croce di Savoja" (per usare il verso di Carducci), non certo per meriti di presunti repubblicani postumi. Che ciò sia non solo storicamente innegabile ma anche acquisito, lo si vide il giorno delle commemorazioni allorché il Presidente Napolitano (ed i cronisti quasi meravigliati a riportare la scena), alla presenza della famiglia Reale di Casa Savoia con in testa il Principe di Napoli Vittorio Emanuele, ha reso omaggio al Pantheon alla tomba del primo Re d’Italia, Vittorio Emanuele II; in precedenza, al Vittoriano sempre il Presidente deponeva una corona d’alloro ai piedi del monumento equestre al gran Re, vero ed autentico "pater Patrie". La cosa si chiudeva quasi alla spicciolata lì, per la retorica dei comunicati: invece, è stato un gesto fondamentale: la sessantacinquenne repubblica (da noi da queste colonne già definita luètica per le tabe della sua nascita, attraverso il referendum truffa) che rende il doveroso, dovuto ed obbligatorio omaggio alla ottantacinquenne monarchia italiana (casa Savoia), per giunta fautrice di quella Unità nazionale che abbiamo, ognuno a proprio modo, festeggiato. E le manifestazioni, anche queste belle, verso la figura del Presidente, hanno del surrogato e vengono dal sentimento più che dalla ragione: è al simbolo che si inneggia, ed il simbolo dell’Italia unita non può essere una persona, per quanto dabbene, che va e viene ogni sette anni. Il simbolo è un Re. E quel Re, è stato onorato nel sacrario del Pantheon. Finalmente.
Necessita quindi in questa sede, una veloce immagine quasi fotografica, in ‘effetto seppia’, ci sia consentita l’allegorìa, del sovrano che costituzionalmente vòlle fermamente e realizzò l’Unità italiana, ovvero Re Vittorio Emanuele II. La storia lo definisce, ed era anche la sua preferita descrizione, "il primo soldato dell’indipendenza italiana": poiché animo di soldato ebbe, soldato si sentì sempre, soldato fu nella vita politica, nella vita privata, nello stile. Assunse il potere ventinovenne nelle infauste giornate della prima guerra d’indipendenza, e dovette negoziare col celebre Radezski l’armistizio detto di Salasco (1849): e tuttavia, adeguandosi e condividendo le aspirazioni del padre Carlo Alberto il quale concedeva un anno circa prima, al Regno di Sardegna la carta costituzionale detta anche Statuto Albertino, mantenne l’ordinamento e non volle, come chiedevano gli austriaci e tutte le case regnanti italiane, dai Borbone (che passano alla storia per aver giurato e spergiurato tante volte sulle costituzioni, quindi sull’anelito di libertà dei popoli: perciò sono esecrati dai contemporanei e mal ricordati, nonostante un certo neoborbonismo, dai posteri) al Papa, avevano fatto, revocare lo Statuto, quindi la garanzia che la monarchia doveva essere moderna, subordinata cioè al Parlamento: questo aspetto sarebbe stato necessario illuminare nettamente –e non poteva farlo l’attuale politica repubblicana, per paura di scoprire le proprie deficienze-, in particolare ai giovani d’oggi. Che l’Italia unita dalla monarchia di Savoia nasce costituzionale, con un Re che sceglie di mettere la sua figura millenaria tre passi indietro alla volontà delle masse, ovvero al Parlamento. E il ‘dominus’ di quel Parlamento, il quale doveva sanzionare a palazzo Carignano di Torino la nascita del Regno d’Italia, era un gentil’uomo di nome Camillo Benso di Cavour.
Vittorio Emanuele era donnaiolo, spendaccione, simpatico, non parlava bene, anzi in modo pessimo, l’italiano preferendogli il francese sua lingua madre: e dovè barcamenarsi con Napoleone III nei giorni della seconda guerra d’Indipendenza, allorché l’Imperatore consentiva, o non impediva, l’unificazione degli stati del Regno delle due Sicilie, mercé l’opera indispensabile del "guerrigliero" Garibaldi, segretamente sostenuto e foraggiato da Re Vittorio, molto meno dal Cavour. Ma venivagli facile codesto abboccamento col sovrano francese: entrambi avevano la medesima amante, la quale era la cugina del Bonaparte e moglie del più fidato consigliere del Re, Urbano Rattazzi. Re Vittorio nel suo carattere irruente, si guadagnò le simpatie di quelle potenze, Gran Bretagna e Francia, che ebbero parte fondamentale nel nostro processo unitario. Lo descrive in termini precisi, conferendogli l’Ordine della Giarrettiera, nel 1855 la Regina Vittoria: "E’ così franco, aperto, giusto, leale liberale e tollerante, e con tanto buon senso. Non manca mai di parola e si può sempre contare su di lui. Ma è selvaggio e stravagante: ama le avventure ed i pericoli, ed ha un fare strano, conciso, rozzo, una esagerazione di quel modo brusco di parlare…. Più che una figura dei giorni nostri, egli è davvero un cavaliere del medioevo". Si notino i due passaggi essenziali della prosa vittoriana, che tanto pesarono sulla politica italo-inglese dei decenni successivi: sul Re, e quindi sulla Casa Savoia, si può sempre contare poiché sono di parola: e Vittorio è una figura da epica romanzesca. Su tale uomo certo assolutamente necessario alla Patria nella metà del secolo XIX, imperniavasi l’Unità italiana. Senza alcun dubbio, egli ebbe le sue debolezze: la più grave, ma comprensibile, fu l’invidia vasta per il personaggio più popolare d’Italia, Garibaldi: non solo lo fece impallinare in Aspromonte per non creare problemi a Napoleone III, considerato che anche su impulso suo (gli ordini alla squadra navale militare di Catania di imbarcare i ribelli garibaldini e portarli in Calabria, furono dati dalla Casa Reale e col concorso della onnipresente Frammassoneria, in quelle giornate del 1862) l’Eroe era ridisceso in Sicilia per marciare ex novo verso Roma; ma anche due anni dopo, quando il Generale era in visita più che trionfale a Londra, impedì al nostro ambasciatore di partecipare alle autentiche ovazioni che tutti, dai Windsor al popolino, tributavano al liberatore della Patria (ed allora Gran Maestro della Massoneria nazionale).
Ma Vittorio Emanuele, pur non accettando le ribellioni del novello Regno italico (dopo la rivolta palermitana del 1866 non esitò ad appoggiare il pugno di ferro della repressione), ebbe sempre il buon senso, pur tentando spesso di scavalcare –ed a norma di Statuto poteva, ma de facto non accadde mai e laddove intervenne con dei politici fantocci, dimostrò il danno che due quadri di comando, casa reale e capo del governo, possono addurre- il Parlamento, di attenersi a quel dettame secondo cui egli il 17 marzo 1861 fu acclamato Re d’Italia: "per grazia di Dio e volontà della Nazione": una formula che all’epoca faceva inorridire le altre case regnanti d’Europa, poiché il Re tale deve essere, si pensava allora, per diritto divino e non, socialisticamente (termine che usiamo non a caso), installato in trono dal popolo. Invece Casa Savoia sin dal 1861 unificava l’Italia in modo che oggi si direbbe ‘democratico’ (le virgolette son dovute), ma senza alcun dubbio assolutamente moderno per i parametri dell’epoca: in stile british, come del resto era nei voti.
Il primo Re capì subito chi erano gli italiani, questo germinato amalgama di popoli parlanti lingue diverse e con diversissime storie: "ci sono due soli modi di governare gli italiani: con le baionette o la corruzione; non capiscono cosa sia un regime costituzionale e sono del tutto inadatti ad esso": queste parole egli le disse all’ambasciatore inglese Paget nei giorni (1867) di Mentana riferendosi agli uomini politici del tempo, ma appaiono illuminanti per l’oggi, e per comprendere la mentalità dell’uomo. Ma del fatto che la Monarchia era nata con la stella, anzi il pentalfa (inciso nelle monete del tempo) della modernità, érane ben conscio: anche il suo successore, Umberto I, lo affermò subito dopo l’assunzione al trono: "La monarchia in Italia o sarà democratica o non sarà".
Vittorio Emanuele II moriva nel gennaio 1878, a 57 anni per uno dei suoi frequenti attacchi di malaria: pochi giorni dopo lo seguiva nella tomba l’arcinemico Pio IX confinato in Vaticano. Fu universalmente compianto: aveva scelto per la Nazione che ebbe dalla Divinità la sorte di reggere, la via della modernità e del progresso, nel solco della carta costituzionale la quale significa libertà del popolo: l’attuale costituzione repubblicana del 1948, altro non è che figlia di quella storia. Tale è l’autentico percorso dell’Italia unita. Con le parole di Giuseppe Garibaldi: "L’Italia una ed il Re Galantuomo siano i simboli perenni della nostra rigenerazione e della grandezza e prosperità della Patria". Onoriamo la repubblica ma amiamo la Patria, che nel suo sentimento è e rimarrà monarchica.
Barone di Sealand
 
 
(Publicato su Sicilia Sera n° 338 del 24 aprile 2011)

Rivoluzione dei giovani in Africa e medio Oriente



Il risveglio delle genti ha motivi generazionali


La rivoluzione in Africa ed in medio Oriente è dei giovani


Le genti seguaci del Libro sacro del Profeta, stanno riscrivendo la storia eliminano i governi corrotti
e instaurando la democrazia delle piazze – Vecchiezza degli europei, ma prendere esempio -
 
"Quelli che tratteranno di menzogna i miei segni, e per superbia se ne allontaneranno, saranno i compagni del fuoco, in cui rimarranno in eterno" (Corano Sura VII, 34). Solo (1543) un secolo dopo la conquista turca di Costantinopoli, l’Europa colta prese a leggere il testo coranico nella versione latina (poi tradotta nelle varie lingue del continente): tale precisazione storica, è fondamentale per comprendere quanta distanza dalla forma mentis mussulmana –e nel mondo islamico, la forma del testo è sostanza- vi sia stata, nei secoli passati: e tale incomprensione continua, nell’apparentemente istruito mondo dell’Occidente. Mentre infatti assistiamo a quel sommovimento di popoli che il Presidente della Camera Gianfranco Fini ha correttamente definito "un nuovo 1989, paragonabile alla caduta del muro di Berlino", al risveglio rivoluzionario delle genti del nord Africa le quali, scrollandosi dal loro servaggio, depongono governi autocratici e dittatoriali, imponendo mercé il tramite delle piazze, le loro decisioni, l’Europa ammorbata dalle pestilenziali conseguenze della sua corruzione etica, assiste (ci riferiamo alle genti comuni, non ai governi, questi ben coscienti delle significazioni e delle implicazioni d’ordine politico internazionale che la stuazione comporta) quasi inerme, a tale gigàntico respiro di popoli giovani.
La chiave di lettura è infatti codesta, fra le principali: intesa comunemente come rivoluzione, quella delle nazioni nord africane e dell’Asia minore di religione islamica, avente motivazioni economiche (poiché la lente pseudo marxiana e meccanicistica della economìa non sa concepire altro…), la richiesta di Libertà che ha portato Tunisia Egitto, e poi Libia ed i paesi del Golfo (sino al santuario dell’Islàm, l’Arabia Saudita) a rovesciare o fortemente contestare le dittature che li gestivano, ha motivazioni nell’entusiasmo dell’età delle genti: piu della metà delle popolazioni di codesti stati, viaggia intorno ai 25-30 anni, e desidera non solo attingere ai benefizi della ‘democrazia occidentale americanizzata’, per intenderci superficialmente in tre parole, ma anche –pur non rinunziando assolutamente alla visione islamica della vita, come accade in Turchia, nazione che sarà presa ad esempio nel giusto frangente, dai governanti nuovi- gestire in prima persona il cambiamento, come è costume delle autentiche rivoluzioni. Sicuramente la transizione ha eliminato le classi di mezzo, responsabili della corruzione: il Capo della giunta militare al potere in Egitto, Hussein Tantawi, ha 76 anni; il nuovo capo del Governo tunisino Cadi Essebsi, ha 86 anni (come se da noi si eliminassero tutti i parlamentari e ci governasse il Senatore a vita Emilio Colombo… che però non può vantare la medesima trasparenza etica dei predetti!): dei ‘vecchi’ però moralmente indiscutibili, al timone di una massa di giovani. E’ la Storia che guida gli eventi. Dal magma dei giorni convulsi stanno emergendo ed emergeranno uomini nuovi, condottieri forgiati al verbo della tecnologia e della tradizione perfettamente coniugati, in questo XXI secolo, onde fungere da guida per le nazioni le quali religiosamente venerano la Parola di Allah e del suo Profeta, da noi citati all’inizio, nella coscienza illuminata di un cammino che li renda protagonisti e non piu sudditi, nel futuro che hanno innanzi ed a cui evidentemente guardano con rinnovata speranza, quanto da parte dei popoli d’Europa invece si fa con tristezza e scoramento.
L’età anagrafica tra le masse africane ed asiatiche mussulmane e le genti d’Italia, di Spagna, di Francia, di Germania, del Regno Unito, è un importantissimo spartiacque: i giovani hanno eu-thymòs, entusiasmo, spensieratezza e voglia di vivere e costruire: gli ultracinquantenni ed i ‘vecchi’ che compongono, all’inverso, le compagini delle nazioni d’Europa (Italia per prima), desiderano protezione dai governi, acquiescenza ed hanno paura del nuovo, dei rivolgimenti che non sannogestire; avversano per invidia generazionale quei giovani popoli, e li considerano con una punta di disprezzo, di genìa inferiore. Ma l’avvenire, lo insegnava già Benito Mussolini nella dottrina del Fascismo, è dei popoli che hanno con loro la fiamma della giovinezza (ciò anche a prescindere, non troppo tuttavia, dall’età), quindi il desidero di abbattere i tiranni e gli oligarchi i quali come sanguisughe sfruttano senza freni il lavoro ed il capitale umano delle genti, imponendosi e volendo migliorare nel privato come nel pubblico. Questi popoli hanno pure la fortuna di aver innanzi dei capi i quali li affrontano con coraggio: è dei giorni scorsi il gesto, davvero degno delle Storie di Tucidide, del nuovo primo ministro egiziano, che innanzi alle proteste dei Copti (dopo l’incendio di una chiesa seguito agli scontri innescati dal connubio di un cristiano con una musulmana), è personalmente sceso in strada ad incontrare, senza scorta e presidi, i manifestanti, facendosi ascoltare e guadagnando così sul campo quella credibilità che i predecessori, gente corrotta e chiusa nei palazzi blindati dònde depauperarono le popolazioni, perdettero ignominiosamente. Comportamenti da decenni non veduti in Italia, ed anche nelle vicine nazioni (se si eccettua il Regno Unito di Gran Bretagna, dove il Premier ha l’abitudine di andare al palazzo governativo in bicicletta, come tanti altri cittadini, e non solo per dare l’esempio…). Una canzone del ventennio ammoniva che "è il sangue a fare la storia, contro l’oro…": a tale verità stiamo assistendo in questi giorni. V’ha invero, nella congerie di interpretazioni e di commenti alla rivoluzione delle masse in Africa ed in medio Oriente, tra le letture sottotraccia, quella cospirazionista, che accusa i sempiterni USA di manovrare nel torbido onde sottomettere gli ingenui e farli cadere nella pània di quello che spregiativamente viene definito il nuovo "governo mondiale", ovvero la Sinarchìa. Ma tale angolatura, oltre ad offendere l’intelligenza degli uomini colti che albergano fra coloro che guidano le rivolte, ed in generale sottintendere una scarsa considerazione del mondo islamico, dimentica che il sangue delle genti versato per l’ideale della Libertà (sia pur essa una utopia o, come nel caso di Lafayette e Garibaldi, un sacro ideale da seguire in Francia e nelle Americhe), consacra il suolo che lo riceve, in un olocausto perenne, di cui secoli e secoli non cancelleranno mai le tracce. E’ altresì sufficiente leggere in controluce le mosse diplomatiche della attuale amministrazione Obama –come quelle ben piu attente ed oculate dell’inossidabile Foreing Office britannico- per rendersi conto di come gli stati a capo della coalizione Nato siano costretti a pronunciarsi, e ad intervenire, nei giorni della perdurante crisi politica e sociale che opprime i rispettivi stati. Può apparire la solita scappatoia –come la crisi petrolifera del 1973, oppure la guerra del Golfo del 1991- da parte degli USA, di svicolare dalle problematiche interne attraverso la guerra esterna ed il rinnovo dell’apparato militare: ma con la Cina in posizione di potenza espansionista (anche se al momento attendista ed in difficoltà nel mantenere il fronte interno, specie nel Tibet e nelle province ai confini còlla Russia, ferventi di moti secessionistici) e la Russia con poche sponde europee (tra cui il dilacerato governo italiano, nella sua infelice scelta di allearsi col primo ministro Putin scontentando i vertici finanziari e politici statunitensi: motivo per cui Berlusconi è da tempo inviso ai circoli ‘illuminati’ delle giurisdizioni sud e nord di Washington…), il caso delle rivoluzioni in Africa e nei paesi del medio Oriente, è il fatto nuovo ed entusiasmante del XXI secolo, a cui, presto o tardi, dovrà rispondere anche la piu sclerotica (politicamente), ingessata e nondimeno fondamentale, unica democrazia ‘occidentale’ presente nella regione: Israele. Di cui gli attenti avranno notato il silenzio e l’apprensione. Intendiamo attesa ed apprensione acute, non già paura o titubanza: i figli della grande Sion difenderanno, se ve ne sarà bisogno, la terra dei Padri sino all’ultima stilla del sigillo salomonico. Però, a parer nostro, il rinnovarsi dei governi viciniori non potrà non avere ripercussioni, che fidiamo positive in senso sociale, anche nella ‘eretz Israel’. Infne, nel sottolineare il ruolo dei militari nell’ambito della gestione spesso pacifica delle rivolte (ma anche negli scontri sanguinosi, come in Libia), si può affermare come in uno Stato che sia degno di questo nome, di là dalla data storica della sua nascita, le Forze Armate siano e debbano sempre essere, come nei momenti di estrema crisi si dimostra, il vertice del triangolo, la spina dorsale della Nazione, a cui il popolo può appellarsi se necessario, e da cui ricevere sicurezza garanzia ed aiuto. Anche in Italia fu così: nei tragici giorni della guerra sciaguratamente dichiarata e perduta, le nostre FF.AA. guidate personalmente dalla Maestà del Re Vittorio Emanuele III, pur crollando nei vari fronti per la caduta del fascismo e l’armistizio, conservarono attorno alla bandiera nazionale ornata dalla bianca croce sabauda, quel simbolo e segno dell’Unità italiana che dopo la liberazione del nord, si ricostituiva indiscutibilmente. Fu così: ma in momenti di necessità oggi, succederebbe altrettanto? Ne dubitiamo, però sarebbe da auspicarlo.
I popoli dell’Africa e dell’Asia minore, seguaci del Libro sacro, stanno scrivendo fulgide pagine della storia: sosteniamoli, ammiriamoli e, se è il caso e se ne abbiamo la possibilità, seguiamo l’esempio: "Per l’aurora e per le dieci notti… non hai tu veduto come ha agito il tuo Signore?…E tu, anima buona sicura della tua sorte, ritorna al tuo Signore, soddisfatta ed a lui accetta! Entra fra i miei servi, entra nel mio paradiso!" (Sura 89, vv.1-5, 27-30)
Barone di Sealand


(Pubblicato su Sicilia Sera n° 338 del 24 aprile 2011)

martedì 19 aprile 2011

Akkuaria contro il nucleare: lettera aperta di Adriano Celentano


Riceviamo da parte dell'amica Vera, volentieri pubblichiamo e sottoscriviamo:


Carissimi,

l'Associazione Akkuaria che presiedo da sempre è stata impegnata nella salvaguardia dell'ambiente, della natura e degli animali e spesso abbiamo realizzato campagne di sensibilizzazione a favore di qualche atrocità che attanaglia l'umanità nel nome del progresso. Per l'attività della nostra associazione abbiamo sempre disatteso le lusinghe di questo o quell'altro gruppo di disattendibili colori politici... la nostra unica politica è stata quella dei "fatti" e non delle "parole". Adesso però siamo scesi in campo per sostenere i referendum del 12 giugno.

Le motivazioni che ci hanno spinto a muoverci sono riassunte in un video che ha pubblicato Adriano Celentano a questo indirizzo http://www.youtube.com/watchv=iszBxpIqh6w&feature=related

qui di seguito riporto il testo integrale del suo appello..

« La cosa più incredibile che più di tutti impressiona è lo stato di ipnosi in cui versano gli italiani di fronte ai fatti sconcertanti di una politica che non è più neanche politica, ma piuttosto un qualcosa di maleodorante e che di proposito, vorrebbe trastullarci in uno stato confusionale, dove sempre di meno si potrà distinguere il bene dal male. Sparisce quindi quel campanello di allarme che ci mette in guardia quando c’è qualcosa che non quadra nei comportamenti di un individuo, un qualcosa che detto in una parola si chiama… sospetto e di sospetti sul nostro presidente del consiglio, tanto per fare un esempio, ce ne sono abbastanza e così nel bel mezzo di una tragedia come quella che sta vivendo il Giappone, dove fuoco e acqua stanno distruggendo tante vite umane, senza contare l’aspetto più insidioso dovuto alle radiazioni liberatesi nell’aria, il nostro presidente del consiglio non demorde “il progetto sul nucleare in Italia andrà avanti”, l’orientamento popolare contro le centrali nucleari decretato dal referendum fatto 24 anni fa, fu chiarissimo, ma per Berlusconi non basta “chi se ne frega della sovranità popolare”. Ho seguito con un certo interesse il cammino politico del terzo polo, e Casini che fino a prima della tragedia di questi giorni ha sempre parlato in modo equilibrato, subito dopo il terremoto, intanto che le radiazioni cominciavano a liberarsi nell’aria e 300.000 persone venivano evacuate dalle loro case, ci ha tenuto a ribadire con una certa fierezza, il suo parere favorevole al nucleare, facendo quasi un rimprovero al governo per non aver ancora iniziato i lavori. Caro Casini, che tu fossi un nuclearista convinto lo sapevamo tutti, ed io rispetto la tua opinione, anche se orribile. L’Italia è uno dei paesi a maggior rischio sismico, come tu sai, le radiazioni sono pericolose non soltanto perché si muore, ma per il modo in cui si muore, una sofferenza di una atrocità inimmaginabile e poi, non si è mai in pochi a morire, specialmente quando la catastrofe raggiunge dimensioni come quella che sta vivendo la povera gente in Giappone. E non venirmi a dire che le centrali nucleari di terza generazione sono più sicure della seconda e che ancora più sicure della terza saranno quelle di quarta, disponibili peraltro nel lontano 2030, la verità è che tu e Berlusconi, siete degli ipocriti marci. Lo sapete benissimo che per quanto sicure possano essere le centrali atomiche, anche di decima o di undicesima generazione, il vero pericolo sono soprattutto le scorie radioattive che nessuno sa come distruggere e che già più di mezzo mondo ne è impestato. Ora il mio potrebbe sembrare un appello, ma non lo è, è una preghiera, una preghiera che non è rivolta ai politici “loro non sanno quello che fanno” per cui mi rivolgo a tutti quelli che invece li votano i politici, di destra, di sinistra, studenti, leghisti, fascisti e comunisti… per il vostro bene, non disertate il referendum, questa volta, sarebbe un suicidio. Dobbiamo andare a votare anche se il governo spostasse la data del referendum, al giorno di Natale. Adriano Celentano


Un invito che personalmente vi rivolgo è quello di parlare con chiunque incontrate, votare SI per dire no è l'unica alternativa che ci resta per fermare la mano di chi ha soltanto l'interesse di arricchire le proprie tasche. Maggiori informazioni sull'argomento saranno pubblicati sulla sezione di Akkuaria Ambiente http://www.akkuaria.com/ambiente/index.htm

un cordiale saluto

vera ambra

lunedì 14 marzo 2011

Il Presidente cinese Hu Jintao e gli USA, un rapporto complesso


Il Presidente in visita in America


Hu Jintao, l’uomo più potente del mondo, in USA da protagonista


La visita di stato ha mostrato la debolezza dell’economìa americana, nonostante gli sforzi
di Obama – Il monito di Kissinger e l’integrità confuciana del leader cinese -
 
Quando nel 1957 l’allora giovane professore di Harward Henry Kissinger scriveva "A word restored", tratteggiava in quel volume di sapiente attenzione, la figura che egli medesimo avrebbe ricoperto quindici anni dopo, quella del Metternich moderno: sovvengono codesti pensieri, nel leggere in controluce l’articolo scritto poche settimane fa dall’ora ottantottenne ‘herr doktòr’, artefice del riavvicinamento Usa-Cina e premio Nobel per la Pace, negli anni Settanta, il quale ha preceduto la visita negli Stati Uniti di colui che è –secondo Forbes- l’uomo più potente del mondo, ovvero il Presidente della Repubblica Popolare Cinese (nonché segretario del PCC e Presidente della Commissione militare), Hu Jintao, nei giorni 18-21 gennaio. E’ stata una visita importantissima e in certo senso storica, come ha voluto intendere il vecchio tessitore Kissinger: "L’America deve avere buoni rapporti con la Cina di oggi", ha ribadito l’uomo delle mille trame, anche per assicurare al presente ed al futuro il lavoro da egli intrapreso e sapientemente costruito con Mao e Ciù En Lai, negli anni della cosiddetta ‘diplomazia del ping pong’. Oggi però la situazione, economicamente parlando, è stravolta, e mentre dal punto di vista strategico-militare la Cina ha inaugurato nuovi missili ed un potente aereo invisibile, nell’economìa è il vero ‘proprietario’ della tesoreria degli Stati Uniti, avendo questi ultimi un debito nei confronti del governo cinese, che mette Pechino in condizione di poter tenere quasi sotto controllo l’egemonìa americana, nel mondo. Alcuni commentatori affermano che l’intenzione sia quella di sostituire lo Yuan, moneta nazionale, nelle transazioni finanziarie mondiali con il dollaro: noi crediamo che, almeno nel cinquantennio che verrà, ciò non sia nell’interesse del governo cinese. Ma è evidente che l’investimento principe, ovvero quello in oro, è stimolato dai dirigenti cinesi, da parte della popolazione: gli investitori comprano oro dovunque; in tale quadro, che River Court, il quartiere londinese della potente Goldman Sachs, sia stato comperato da una società "Chinese estates", la dice lunga sul livello di potenza della Cina, oggi. Neppure la potente lobby israeliana può adoprarsi alcunché per anche solo limitare codesta realtà: l’evidenza la si è avuta nell’ultimo giorno della visita di Hu Jintao a Chicago, città del Presidente Obama (con una delle figliole che studia cinese e che ha scambiato qualche battuta col leader, significativo segno), laddove il capo della nazione asiatica ha portato con sé ben 500 imprenditori della sua Patria, per investire nella disastrata economìa USA, dalla crisi del 2008 al collasso finanziario (se non fosse per l’immissione forzata, a cui Hu Jintao si è giustamente detto avverso, di dollari fittizi stampati dalla FED, che è un consorzio di banche private, sia chiaro, onde reggere la struttura statale americana) odierno, che Barack Hussein Obama sta tentando, dapprima con misure drastiche poi rivelatisi poco sicure, ora con compromessi inevitabili col Congresso a maggioranza repubblicana dopo le elezioni di mid term, di contenere.
E se i commentatori di estrazione conservatrice tacciano Hu Jintao di essere il "Bush cinese", qualora si voglia ricordare la parata militare dell’ottobre 2009, sessantesimo anniversario della fondazione della Repubblica Popolare, con la figura ieratica del leader, impettito e scattante innanzi a tanta potenza e sfoggio di grandezza e muscolarità non tanto guerresca, quanto economica, si comprenderà come un uomo dalla vita privata integerrima, può ben assurgere al timone di comando di una grande nazione, e gestirla con piglio sicuro, nel XXI secolo il quale –per la immensa diffusione dei prodotti di ogni genere provenienti dalla Cina in tutto il mondo- sarà il tempo dell’Asia, e della sua infinita Patria di uomini gialli, della loro cultura, della loro tradizione trimillenaria, della loro civiltà ammantata da una ideologìa la quale, se conserva il nome dell’antica visione socialista ed occidentale, ha dietro la patina, la veste multicolore ma compatta della dottrina confuciana ed assoluta del Celeste Impero, di cui prima Mao, poi Deng Xiaoping (e Hu Jintao proprio dal grande Deng fu scelto come successore designato, secondo una antichissima abitudine, che era già degli Imperatori Romani), furono solenni incarnazioni.
"Solo colui la cui vita privata fu sempre integra, può arrischiarsi alla vita pubblica; ma chi non conosce onestà per sé, con che faccia si fa egli innanzi agli altri, ai quali deve essere esempio di lealtà e schiettezza? … Il sovrano sia esempio d’ogni virtù, e adoperi ogni sua forza a vantaggio del popolo": tali insegnamenti di Confucio, ben più che la dottrina leninista, albergano oggi nella alta dirigenza cinese: infatti il Presidente Hu, a Chicago non ha inaugurato un Istituto Marx-Engels, ma una scuola culturale confuciana! E se il dottor Kissinger, da finissimo uomo politico, ha lanciato l’avvertimento ben prima che si avveri la profezia e naturalmente per non rimanere indietro nell’ultima carrozza del treno della Storia, gli è che la potenza economica della Cina –la quale avendo surclassato per la sua capacità di incamerare nelle banche centrali immense quantità di oro, nonché investire in Euro e trattenere il grandissimo debito americano, del cui mercato del resto non potrebbe fare a meno poiché è una notevolissima fonte di sviluppo, ed avendo altresì, nel silenzio e nel lavorìo indefesso con cui i cinesi hanno scavato potenti gallerie, preso possesso delle miniere e dei giacimenti di metalli preziosi dell’Africa, attraverso accordi economici e di sostegno coi governi deboli di quelle nazioni- è risultata da questa visita, ad apertura del 2011, inarrestabile e decisa a marciare con passo sicuro, nel ruolo di guida della struttura sociale del mondo: se, come è emerso nell’ultimo ventennio, essa si fonda sul predominio –marxiano codesto, è vero- della economìa sulla politica, almeno all’apparenza delle masse.
Del resto, il Presidente Hu può permettersi ciò: ingegnere idraulico, sessantanovenne, alla guida del Partito e dello Stato dal 2002, è stato capo della regione del Tibet e con vigore ha represso i moti di ribellione del pur oppresso stato del Dalai Lama, guadagnandosi il plauso degli allora dirigenti di Pechino; ha elegantemente ignorato le obiezioni sollevategli sui diritti umani e sul problema del premio nobel Xiaobo, che il governo di Pechino tiene prigioniero per motivi di sicurezza nazionale, rispondendo a suo modo, senza cadere in trappole e scene inutili. Insomma, nell’epoca attuale di decadimento e di personaggi discutibili ai massimi livelli delle nazioni, pur nelle notevoli differenze, un vero ed autentico capo. Protocollare e preciso, come nella alta tradizione dei dirigenti cinesi, è un imperatore senza corona in cui vediamo l’applicazione della grande scuola confuciana, secondo il seguente pensiero menciàno: "Per ben governare sono necessarie tre cose: benessere materiale, armi e fiducia in chi regge lo Stato. Se tutte e tre queste cose non si possono avere, convien fare a meno delle armi; ma se anche le vettovaglie venissero a mancare, e il popolo impoverisse, si faccia ogni sforzo, perché il popolo non perda mai la fiducia. La miseria può uccidere gli uomini, ma la mancanza di fede uccide le nazioni". E la Cina d’oggi, a differenza dell’Europa (gli USA per fortuna serbano quel patrimonio illuminato che è la Costituzione del 1776, fonte inesauribile di Luce), ha grande, lungimirante fede.

Barone di Sealand
(Pubblicato su Sicilia Sera n°337 del 6 marzo 2011)

martedì 22 febbraio 2011

In Libia balena la monarchia: la bandiera dei Senussi innalzata dai rivoltosi a Bengasi


















In queste ore divampa la rivolta in tutta la Libia contro il dispotico, ed antidemocratico, regime di Muhammar Gheddafi, al potere dal 1969, dalla deposizione cioè di Sua Maesta Sidi Idriss al Senussi, primo ed unico (sinora) Re della Libia unificata, mercé la volontà degli Alleati vincitori della seconda guerra mondiale.
Esprimiamo tutta la nostra solidarietà affettuosa ai Fratelli che in Tripolitania, nel Fezzàn e soprattutto in Cirenaica, si stanno liberando, in nome del Dio Unico, potente e misericordioso, da catene di schiavitù, e siamo certi che troveranno, dopo le tristezze del sangue in questi momenti versato dai seguaci delle tenebre, la Via della Luce. Nella Tolleranza, nell'Armonìa, nella moderazione e nel rispetto della civiltà, che non ha tendenze le quali non siano democratiche e verso il progresso coniugato alla Tradizione.
A questo proposito, auspichiamo il ritorno della Monarchia costituzionale in Libia: un ritorno che si sta manifestando nei simboli i quali, chi li sa decrittare, sono segni di realtà. Osservi il lettore le foto inviate oggi da un blogger (a7fadhomar) nel sito di Flickr della rivolta che vede, a Bengasi (la città capitale della Cirenaica, la terra del Silfio e delle Esperidi, l'antica Berenice di Batto, la sede della Confraternita dei Senussi, che Iddio protegga sempre dal luoghi santi di el Beida, laddove fu la prima zaùia, Giarabub e Cufra...), la popolazione e l'esercito libico fraternizzare: la marea umana che sfila nella litoranea bengasina ed il giovane sul carro armato inalberano non più la bandiera verde della Jamahiria gheddafiana, ma la 'vecchia' bandiera dell'United Kingdom of Lybia, ossia il vessillo della monarchia di Re Idriss. E se a ciò si uniscono le dichiarazioni del nipote dell'ultimo Re, Sua Altezza il Principe Idriss, che vive tra Roma e Washington, come le posizioni dell'altro Principe, Sua Altezza Mohammed Senussi, che vive a Londra, la realtà dei fatti appare evidente. Il popolo di Cirenaica e di Tripolitania e del Fezzan, vuole autogovernarsi nella libertà: se non con una larga autonomìa, attraverso la figura di un monarca che garantisca l'unificazione dei territori. Del resto, fu proprio il Regno d'Italia, di cui tali regioni erano colonie dalla guerra italo-turca del 1911-12, che creava nel 1934 la colonia unita di Libia, ergendola a provincia metropolitana nel 1938. La sciagurata guerra perduta dal fascismo rovinò tutto, ma era nei voti che il già Emiro di Cirenaica Sidi Idriss Al Senussi, discendente del Profeta (con lui la pace), divenisse la figura catalizzante, in virtù della sua purezza e del suo carisma, del Regno Unito di Libia, il quale nasce dal balcone dell'ex governatorato di Bengasi, con la stessa bandiera delle foto qui riportate, mezzaluna e pentalfa, che in queste ore garrisce nuovamente al vento affricano dopo 42 anni, la sera del 24 dicembre 1951.
Nihil sub sole novum, dunque: la Libia può tornare ad essere (come fu in Spagna, come secondo alcuni analisti si sta già preparando) una monarchia costituzionale, nel quadro della Tradizione della sacra Confraternita dei Senussi, dal grande ascendente popolare. Può coniugare in modo intelligente sovranità regale e riforme sociali. Oppure potrà smembrarsi (ciò si accorderebbe pure con la storia, essendo Tripolitania Cirenaica e Fezzan molto diverse strutturalmente ed etnicamente), anche se le potenze mondiali non ne sarebbero entusiaste, e difficilmente permetterebbero a tale stato così energeticamente importante, codesto cammino. E però, la rivoluzione in atto in tutto il Nord Affrica nulla può escludere. Tutto è nelle mani dell'Unico, del Supremo Artefice. Ed a Lui che solo conosce il segreto delle parole perdute, si affida il destino di noi popoli del Mediterraneo. Però il segnale c'è, la bandiera monarchica senussita (verde delle parole profetiche, nero della putrefazione, rosso della perfezione fra i tormenti, con l'albedo della mezzaluna e della stella) in alto nel cielo di Bengasi: torni la dinastia regnante in Libia, se così si vuole e si può, ma in ogni caso regni non più turbata da fanatismi e degenerazioni controiniziatiche, la Virtù, la Tolleranza verso tutti, la Luce infinita dei cinque punti.
(F.Gio.)

lunedì 7 febbraio 2011

Mario Monicelli, un Maestro di Libertà


Il grande regista suicida a 95 anni


Mario Monicelli, un Maestro di Libertà


Dai suoi films abbiamo colto aspetti indelebili dell’animo degli italiani, e l’ultimo suo gesto è stato un insegnamento – Visione tragicomica della vita -


E’ stato uno dei grandissimi esponenti di quel filone che i critici cinematografici, con un certo decoro, hanno definito della commedia all’italiana: un Maestro, ora che se ne è andato, lo si può scrivere senza problemi, anche se –dato il suo carattere schivo, sdegnoso di complimenti ed elogi- egli avrebbe rifiutato l’appellativo, poiché sapeva ciò che era: Mario Monicelli. Ha deciso di spegnere la sua vita volontariamente, a 95 anni suonati, il 29 novembre u.s., a causa di un tumore alla prostata in fase terminale, che lo costringeva da qualche tempo al reparto di Urologia dell’ospedale San Giovanni di Roma, città ove trascorse la più gran parte della vita (pur essendo di origini toscane). Si è gettato dal quinto piano del nosocomio, verso le 21, solo nella sua stanza: un gesto di grande coraggio e lucidità, di estremo raziocinio; hanno scritto che è stato un atto di disperazione, il quale sessanta anni dopo ha emulato il suicidio del padre (Tommaso, giornalista e editore, così moriva nel 1946, per essere stato emarginato sia dal fascismo che dal mascherato antifascismo), ma la morte di Monicelli, come tutti i suoi films, per chi come noi ama senza confini tutto il cinema e, naturalmente, quello italiano, è stato l’ultimo suo insegnamento, a chi sa comprendere. Oltreché un atto di estrema coerenza.
Se si rivedono e rileggono le ultime, frequenti sue interviste, ripeteva spesso di non volere accettare mai una vita che sia indegna di essere vissuta; ebbe vicende personali movimentate, come del resto in Italia negli ultimi anni molti, ma decise negli recenti temoi (lo ricordiamo a La7 per i suoi novant’anni) di vivere da solo, anche se per pudore spiegò solo dopo, per iscritto a MicroMega, nel maggio scorso, il perché: "Per quanto in Italia le cose vadano male, tutti hanno un paracadute sul quale contare. Il più grande, il più pervasivo, il peggiore di tutti è la famiglia. La famiglia è ormai diventata la tana in cui ci si rifugia scappando da un mondo di egoismi e sopraffazioni. Ma è una tana che serve ad alimentare ancora di più questa reciproca ostilità, perché ormai tutti si fidano solo dei quattro o cinque familiari che hanno intorno. Tutto deve essere sacrificato alla famiglia: qualsiasi cosa, qualsiasi malefatta può essere giustificata se serve a proteggerla o a farla prosperare. Sono diventate dei piccoli rifugi di bestie feroci nelle quali nessuno può entrare. Da collante sociale si sono trasformate in elemento fondamentale di divisione e reciproca ostilità": Da questo coacervo di sentimenti più negativi che positivi, soffocanti, il vecchio profeta si era estraniato, "per vivere più a lungo", affermava: fu vero, considerati i risultati cronologici. E le parole del Presidente della Repubblica Napolitano, per cui bisogna rispettare l’estrema decisione del suicidio, hanno spazzato via, anche se in parte, ogni conato di rinascente polemica, poiché numerose voci riconducibili al Vaticano, hanno avuto l’ardire di affermare che Monicelli non fu un propagandista dell’eutanasìa. Forse questo è vero, egli non scese nelle piazze col cartello a manifestare a pro della pietosa morte: ma lo fu coll’esempio suo, paragonabile, pur nelle diverse epoche e distanze storiche delle persone e dei risultati, a Petronio ed a Seneca, entrambi periti per propria mano, pur di non soggiacere ad una tirannide. Allora era l’autocrazìa del princeps, ma anche il tedium vitae: oggi nessuno, crediamo, si sopprimerebbe per non vivere nel ‘regime’ di Berlusconi, ma per non essere schiacciato dalla sofferenza della malattia, sì.
Monicelli, dòtto in Lettere e Filosofia, fu un Maestro non solo perché, iniziato il suo percorso di creativo come assistente e sceneggiatore prima della seconda guerra mondiale (sua è la collaborazione a "Squadrone bianco" di Genina, già considerato un film di propaganda, oggi tra le migliori pellicole del genere coloniale, del 1937), passa da solo e con Steno, alla farsa commediografata di Totò, le cui doti egli ha più volte precisato vennero scoperte dopo la morte, e da "Totò cerca casa" a "Guardie e ladri" (con Fabrizi, per la cui interpretazione il Principe De Curtis meritò il Nastro d’Argento a Cannes) , a "Totò e Carolina", che ebbe i noti problemi con la censura rigida della DC dell’epoca, nel 1953, sino a "Risate di gioia" del 1960, con Anna Magnani (la quale, ricorda Monicelli, non voleva più girare con Totò perché, già in America, temeva di screditarsi con l’ex compagno di rivista, dalla critica accademica considerato un guitto…) ed un giovane Ben Gazzarra, di cui il Maestro valorizzò l’aspetto tragico, film del resto da rivalutare tratto altresì da due racconti di Moravia; nel frammezzo, Monicelli, aveva dato la sua grande e a parer nostro, insuperabile prova di regìa con "La grande guerra", del 1959, un ritratto impietoso ed estremamente veritiero dell’immane ed enormemente sanguinoso conflitto, di cui la retorica fascista aveva esaltato gli eroismi, dimenticandone, ed è ciò che Monicelli mette in rilievo con le insuperabili interpretazioni di Sordi e Gassmann, gli aspetti estremamente umani, nella loro miseria ma alfine nel loro grande orgoglio di essere italiani.
Tra i suoi meriti, quello di aver svelato il tratto comico di Monica Vitti, ne "La ragazza con la pistola", del 1966, causa del rinfocolato polemismo con Michelangelo Antonioni (eppure erano simili, i due maestri: intellettuale e cervellotico l’ex vincitore del GUF Antonioni, già estremista filonazista poi comunista, come era inevitabile; succedaneo dei tanti sottufficiali che evitarono il fronte e gettarono la divisa dopo l’otto settembre, Monicelli, però avente nei geni l’antifascismo ereditato dal padre, ed il ribellismo anarchico del carattere; entrambi a lungo vissuti, Antonioni 91 anni, anche se colpito prima da paralisi), nonché di aver prodotto, in presa diretta quasi –altro merito che la critica dei giorni scorsi, forse artatamente, si è ben guardata dallo scrivere- un film commedia sull’appena avvenuto, ed abortito, ‘golpe Borghese’, con la perfetta interpretazione di Ugo Tognazzi: "Vogliamo i colonnelli", è del 1973. Gli altri films di Monicelli, da "Romanzo popolare" a "I soliti ignoti" a "Parenti serpenti" (a cui si può accostare, nel 1953, "Totò e le donne", sempre suo, ove si coglie evidente la vis incisiva e corrosiva del rapporto col sesso femminile del baffuto regista, il quale sino alla fine ebbe la dolcezza di essere accanto alle donne, e figliolanza dall’una e dall’altra, ma sempre nella sua solitaria coerenza), sono a nostro parere meno rappresentativi, dei citati, dell’opera cinematografica monicelliana: la quale raggiunge il culmine, a pari merito coi precedenti, non già con i due "Amici miei", pur similari al carattere privato del Maestro e davvero espressivi di un certo modo di vedere la vita, tra uomini, ma con "Il Marchese del Grillo", ove il volto dell’eterno carattere dei romani è svelato nella sua densa, a volte ipocrita, interezza (solo Sordi poteva avere quel ruolo, il quale in verità fu scritto da altro, e grandissimo, romano, Aldo Fabrizi), e, in pieno periodo di pistolettate estreme, "Un borghese piccolo piccolo" del 1977, dal romanzo di Cerami, laddove la verità delle debolezze, persino dei minimi sogni di moltissimi italiani si svelano nel personaggio interpretato sempre da Sordi, il quale fa piangere davvero sia di commozione che di crudeltà spietata, nel far di tutto prima per procurare un posto statale al figlio, poi nel torturare senza freni il suo assassino. Basterebbe quel film a fare di Monicelli un eccelso dipintore della realtà, come fu per Pontecorvo nella "Battaglia di Algeri": per fortuna, diversi quadri ed indimenticabili egli ci ha lasciato.
Abbiamo letto del suo essere anticlericale, e pertanto delle critiche che, poveretto, anche post mortem per il gesto suo ha dovuto subire: per fortuna la famiglia ha rispettato le estreme volontà, nessun funerale in chiesa e cremazione: e se il parroco del quartiere romano dove viveva ha comunque al passaggio del feretro, suonato la campana, è –cinematograficamente, ma non troppo- una non originale ripetizione della scena di Don Camillo, che suona le campane per il giovane comunista che passa davanti la chiesa, in "Don Camillo Monsignore ma non troppo". Mario Monicelli non era ateo, ma anticlericale sì, lo fu sempre: "Prima dell’avvento del cristianesimo avevamo società politeiste in cui ognuno si sceglieva con una certa libertà gli dei da pregare e ai quali votarsi. Intendiamoci: nessuna nostalgia verso società fondate sullo schiavismo e sulla sopraffazione dei più deboli. Tuttavia del mondo antico mi ha sempre affascinato il rapporto a mio avviso più equilibrato con la religione. Senza questa ossessione verso l’aldilà, il peccato, la dannazione eterna eccetera, che ci è piovuta addosso con il cristianesimo. Io considero l’avvento del monoteismo, e del cristianesimo in particolare, come una sciagura per l’umanità. L’ebraismo era sì una religione monoteista, ma era rappresentato da una piccola setta che non rompeva i coglioni a nessuno. È stato san Paolo, il cristianesimo, a seccare il mondo intero. L’ho sempre pensata in questo modo, anche se nelle nostre commedie del dopoguerra la satira di carattere anticlericale e antireligioso non ci era consentita. Per questo nei nostri film sono molto scarsi i riferimenti alla religione. Oggi le cose sono cambiate e non sarebbe più un problema ironizzare in maniera anche molto pesante sulla Chiesa, i papi, i Padre Pio e compagnia bella. Ma, insomma… ormai non ne vale nemmeno più la pena. Sarebbe come sparare sulla Croce Rossa! Quello è un mondo in disfacimento". Difficile, anche da credenti nel messaggio del Messìa, potergli dare torto, se si analizza la storia, anche con le lenti critiche del Cristiano (Alfred Loisy, difficilmente avrebbe contestato Monicelli…). Nell’intervista video a La7 del 2005, Monicelli svelava che per scrivere le parti della affiliazione massonica del "Borghese…", egli stesso si era fatto iniziare alla fraternità della Massoneria. La quale notoriamente, tranne alcune frange, non è atea, ma ammette un Dio trascendente quale intelletto regolatore. Ecco, Mario Monicelli non era ateo, come hanno impropriamente scritto. Era Massone. Un Fratello. E da Massone, ha condotto e concluso la vita sua. Nella Libertà.


Barone di Sealand


(Pubblicato su Sicilia Sera n° 336 del 6 febbraio 2011)

lunedì 31 gennaio 2011

Appuntamenti culturali in libreria a Catania con Akkuaria


A partire dal 26 gennaio 2011 tutti i mercoledì dalle ore 17 in poi presso la Libreria Trinacria di Piazza Giovanni Verga 6a si svolgono degli incontri culturali sul tema della poesia, narrativa, pittura e... tanto altro ancora
Gli incontri, patrocinati dall'AICS, Comitato Provinciale di Catania, Settore Cultura, sono tenuti da Vera Ambra.
Tra gli ospiti sono presenti attori, letterari, critici, pittori, cultori della lingua siciliana ecc.
Inoltre vengono trattati argomenti di attualità vari e in particolare sarà dato spazio agli Autori di Akkuaria e alla loro produzione letteraria.
 
 
 
 
 
 
Programma del Punto Akkuaria,
tutti i mercoledì ore 17.00 Libreria Trinacria Piazza Giovanni Verga 6a Catania


2 FEBBRAIO 2011
Incontro con il Poeta Pippo Nasca
I versi di Giacomo Leopardi tradotti in siciliano
A seguire libero recital con gli Autori presenti


9 FEBBRAIO 2011
Pomeriggio con il Duo Calì - D'Arrigo


16 FEBBRAIO 2011
Spazio aperto: libero recital con gli Autori presenti


23 FEBBRAIO 2011
Incontro con il Poeta Carlo Trovato
A seguire libero recital con gli Autori presenti


2 MARZO 2011
Incontro con il Poeta Gaetano Petralia
A seguire libero recital con gli Autori presenti


9 MARZO 2011
Incontro con il Poeta Giovanni Scilio
A seguire libero recital con gli Autori presenti


16 MARZO 2011
Incontro con la Poetessa Antonella Cardella
A seguire libero recital con gli Autori presenti


30 MARZO 2011
Per i 190 anni dalla sua scomparsa
"Omaggio a Domenico Tempio" a cura di Francesco Giordano
A seguire libero recital con gli Autori presenti

venerdì 14 gennaio 2011

Nasce a Catania l'Associazione 25 novembre contro la violenza alle donne


Nasce a Catania l’Associazione 25 Novembre Giornata Mondiale contro la Violenza alle donne con lo scopo è di farsi portatrice dell'uguaglianza di genere e dell’empowerment delle donne.L'Associazione è aperta a persone, Associazioni. Gruppi, Comitati e quant'altre organizzazioni che perseguono finalità similari e comunque compatibili con il presente statuto e che non perseguono fini di lucro.L’Associazione intende promuovere il proprio impegno sociale e culturale attraverso tutte quelle linee guida ed eventuali progetti presenti e futuri (nazionali e internazionali), dettati dai Rappresentanti dei Governi degli Stati Membri dell’Unione Europea, dall’UNESCO, dall’ONU, dalle Associazioni Governative e non Governative, dai Collegi Scientifici, dai Movimenti e Comitati Pubblici e dei Cittadini, dai Volontari e da tutte quelle organizzazioni e/o rappresentanze, seppur non elencate, che si sono dedicate alla realizzazione delle linee guida ed agli eventuali progetti.l’Associazione è apartitica, apolitica, non persegue fini di lucro ed è fondata su principi di libertà, democrazia, uguaglianza e solidarietà. Essa si prefigge lo scopo di promuovere la prevenzione della violenza contro le donne e i bambini e la lotta contro tutte le forme di discriminazione nei confronti dei più deboli e quant'altro rientri nell'ottica di genere nelle politiche di cooperazione allo sviluppo; sulla Disabilità, sulla Democratic Ownership, sulla Comunicazione, sulla Valutazione e sui diritti dei Minori".


PROGRAMMA ANNUALE DELLE ATTIVITÀ 2011

GennaioRealizzazione della Collana d'informazione per la prevenzione degli abusi e della violenza""IO SONO… IO ESISTO…Volumi in preparazione: Abusi sui minoriViolenza alle donne e di genereRealizzazione della "Biblioteca delle Autrici contemporanee" che sarà ospitata presso la sede del Comitato Provinciale di Catania Via Traversa Corso Messina 23 - 95014 Giarre (Catania) tel. 095 7795285

I Salotti dell’Arte. A breve saranno attivati presso centri culturali e biblioteche di Catania e provincia una serie di appuntamenti settimanali dove si svolgeranno incontri vari.


Febbraio. 11-13 febbraio Roma durante la manifestazione "Viaggio tra le vie dell’arte" rassegna artistica dedicata al canto, musica, letteratura, fotografia e pittura sarà presentata pubblicamente l'Associazione 25 Novembre Giornata Mondiale contro La Violenza alle Donne.
Giovani & Legalità. È un progetto che principalmente vedrà protagonisti i giovani. I programma toccheranno i temi della prevenzione e della salute. Sono previsti una serie di incontri con medici, magistrati e Operatori Socio-Culturali.Marzo "La differenza di genere e la mascolinità" A Catania e provincia si darà il via ad una Campagna di sensibilizzazione e di educazione per l’eliminazione delle differenze e le violenze sul genere. Il percorso presuppone quello di far mettere l’attenzione sulle irrazionali regole imposte dalla società (dalla nascita in poi), che determinano le differenze di genere, nonché l’emarginazione, la discriminazione e la violenza in tutti gli strati culturali. Porta pure alla luce le varie dinamiche della famiglia e della società odierna.


Giugno. "La violenza generata dalle differenze di genere"Campagna di sensibilizzazione e di educazione per l’eliminazione delle differenze e le violenze sul genere. Il percorso prevede la visitazione del condizionamento degli individui di qualunque sesso, nelle varie forme di violenza esistenti nella nostra società. Saranno perciò riportate e spiegate tutte le forme di violenza (bullismo; mobbing; nonnismo; violenza e abusi sul genere maschile; violenza e abusi sul genere femminile; (per entrambi i generi violenza: psicologica, economica, fisica, sessuale).


Novembre DIBATTITI - CONFERENZE E CONVEGNI SUL TEMA: 25 novembre Giornata mondiale contro la violenza alle donne


Il Consiglio Direttivo dell’Associazione25 Novembre Giornata Mondiale contro la Violenza alle donneè così composto:

Presidente Sara Aguiari

Vice Presidente Antonia Belvedere

Segretario Vera Ambra

Consiglieri

Mariella Sudano

Gabriella Rossitto

Angela Agnello

Carla Russello

Graziana Scalisi

Giorgio Russello

Francesco Giordano

Roman Clarke

Angelica Lazzarin


Sito: www.venticinquenovembre.it