venerdì 15 ottobre 2010

Garibaldi l'onesto, nelle commemorazioni per l'Unità italiana




Sulle ultimi analisi della storiografia dell’Eroe

Garibaldi l’onesto, dall’inizio alla fine dell’impresa dei Mille

Prevale oggi una lettura critica dell’eroica azione che unificò l’Italia, ma nessuno può
mettere in dubbio la rettitudine etica dell’uomo – Soli premi, delle sementi e del caffè -

In questi mesi ferve sulla stampa e nelle commemorazioni ufficiali, occasione il centocinquantenario dell’Unità d’Italia, una rilettura dell’impresa dei Mille, che è alquanto diversa dalla vulgata ufficiale, in vigore sino a circa un ventennio or sono. Ovvero, si discetta –anche a livello accademico, e ciò appare senza dubbio un bene per la storiografia- delle circostanze, molte poco chiare, entro cui si svolse la magnifica azione, che ad opera dell’eroe (mai appellativo fu più meritato) Giuseppe Garibaldi, componeva finalmente il dilacerato quadro geografico della Nazione, nella –ideale più che reale: ma era l’azione suprema, compiuta- compagine italiana. Opera degna di stare nelle più fulgide pagine della storia: opera che è inevitabile si presti ad una sana retorica: infatti sia da una parte, quella dei laudatores, che dall’altra de’ denigratori, essa fiocca inesorabile. La più gran parte dei documenti altresì della spedizione garibaldina, partita da Quarto di Genova il medesimo giorno anniversario dell’ascesa al cielo del titano Napoleone, nell’anno 1860, sono stati in questi anni pubblicati dagli studiosi: e se ve ne fosse ancor bisogno, è luogo di aggiungere che, in ogni capitolo delle umane azioni specie le più importanti, vi sono paragrafi che debbono necessariamente rimanere muti negli scritti, eloquentissimi nelle azioni.
Qui crediamo di far utile esercizio di memoria, a benefizio del lettore, nel rammentare, ove il frangente si presta senza alcun dubbio alla rimembranza, la figura assoluta, in ogni senso, di Garibaldi, quale uomo perfettamente onesto. E’ egli forse il condottiero d’Europa sul quale moltissime biografie, dei più diversi storici, sono state scritte: pure, da avversi orizzonti, tutte convergono su un inequivocabile punto, vertice ideale di un triangolo: la Rettitudine adamantina del personaggio, che ebbe alla base due obiettivi, la Patria e l’Umanità. Non sarebbe stato per la sua visione umana possibile raggiungerne ambo le sponde, se egli non fosse stato animato, sin dalla giovinezza corsara (si rammenti che perviene in Sicilia, quale comandante di un gruppo di “filibustieri borghesi” in camicia rossa, a cinquantatré anni, temprato da multiformi battaglie e dolori umani e sociali) da codesta diana, luminosa per un asilante della Virtù come lui, ossia l’onestà di principi, la semplicità dei costumi, una etica affatto laica e trasparente. Garibaldi ancora nel XXI secolo, per una certa visione che rifiuta anche la intelligente ricerca storica di parte clericale, passa per un anticristiano: mentre lo studioso attento sa che fu sì fortemente, ed a volte con inusitata ferocia, anticlericale, però mai anticristiano né anticattolico. La sua religiosità laica, del resto, egli la dimostra subito nell’accorrere, dopo le vittorie che hanno ancor oggi dell’incredibile, di Calatafimi nonché la resa della potente piazzaforte di Palermo, capitale della Sicilia, in Duomo ad assistere al festino di Santa Rosalìa, ed omaggiare la Santa più amata della Sicilia occidentale (quel che non avrebbero fatto né Bakunin, né certo Carlo Marx, il quale anzi alla venuta di Garibaldi in Inghilterra nel 1864, definì le cerimonie ed il protagonista una “manifestazione di imbecillità”). Sconcertando alcuni, del resto, la documentazione coeva (dal “Malta Times” ai carteggi privati) riferiscono subito che alla testa dei Mille vi si notano immediatamente “parecchi monaci francescani colla croce in una mano e la spada nell’altra”. Uno di costoro, che diverrà noto, fra’ Giovanni Pantaleo, ebbe l’abitufine, per lui usuale, di celebrar ogni giorno Messa nei campi dei garibaldini, del resto miscela eterogenea di miscredenti e cattolici devoti, uomini del dubbio e pencolanti verso il deismo, colorati sopra tutto nel vestire.
La quaestio che si agita ora è quella sollevata già negli anni trascorsi, dalla ricerca sotterranea: ebbe l’impresa dei giovini volontari in camicia rossa l’appoggio, la connivenza, addirittura la sua strutturazione priméva, nelle sale del Foreing Office di Sua Maestà Britannica, nazione a cui si sapeva il Generale essere particolarmente legato e che visitava negli anni cinquanta del XIX secolo?
A volte arrovellarsi in contorsionismi cartaceo-verbali appare inutile, laddove le risposte sono, come s’afferma, sotto lo sguardo di chi vuol vedere. Garibaldi medesimo, nelle note sue “Memorie”, lo scrive, a proposito dello sbarco dell’undici di maggio a Marsala, laddove due navi della flotta borbonica, si erano (stranamente?) allontanate poco prima dell’avvicinarsi del Piemonte e del Lombardo –tornano poco dopo, appena finito lo sbarco-, mentre due vapori da guerra inglesi, l’Argus e l’Intrepid, ancoravano nella rada marsalese: “La presenza dei due legni da guerra inglesi influì alquanto sulla determinazione dei comandanti dei legni nemici, naturalmente impazienti di fulminarci, e ciò diede tempo di ultimare lo sbarco nostro. La nobile bandiera di Albione contribuì, anche questa volta, a risparmiare lo spargimento di sangue umano; ed io, beniamino di codesti Signori degli Oceani, fui per la centesima volta il loro protetto”. Anche se subito dopo egli si affretta a precisare, poiché erano nate subito delle polemiche direttamente smentite dal gabinetto inglese, l’inesattezza “che gli inglesi avessero favorito lo sbarco in Marsala direttamente”, è innegabile che l’excusatio non petita dell’ingenuo –ed in ciò riposa la caratura della sua sincerità, della sua schiettezza che gli fece l’anno dipoi gridare in faccia a Cavour, probabilmente provocandone involontariamente la crisi cardiaca e pochissimo dopo la morte, di aver generato una “guerra fratricida”- generale, depone a chiarificazione di molti avvenimenti, i quali non per questo si spogliano della loro avventurosa genialità, del loro coraggio invidiabile. Scrivano pure alcuni che l’oro di Londra, le mene –tutte da provare, ma che non si possono stabilire- della Massoneria corruppero i generali borbonici, segnatamente il Lanza, nel permettere le vittorie dei garibaldini: dai rapporti coevi, pubblicati dagli storici, nessuno può mettere minimamente in dubbio che la pugna del cosiddetto ‘pianto dei Romani’ nelle terrazze digradanti della piana di Calatafimi, vide “i Mille vestiti in borghese, degni rappresentanti del popolo”, che “assaltavano con eroico sangue freddo di posizione in posizione, i soldati della tirannide, brillanti di galloni, di spalline, e li fugavano! .. i pochi ‘filibustieri’ senza galloni e dorature, di cui si parlava con solenne disprezzo, avevano sbaragliato più migliaia delle migliori truppe del Borbone, con artiglieria e tutto il resto… un corpo di borghesi, ancorché filibustieri, animati da amor di patria, possono dunque vincere anch’essi, senza bisogno di tante dorature”. Così la prosa di Garibaldi, nelle Memorie. I soldati del Regno delle Due Sicilie, risulta si batterono con valore: ma non si attendevano, da una accozzaglia di civili, ben dieci assalti consecutivi alla bajonetta (scrive il coevo il Malta Times).
Il mito era nato, e rimane indelebile. Tutto il seguente, dalla celebre frase di Garibaldi a Bixio, al popolo che lo vedeva come un secondo Messìa, dagli Argonauti alla cerca del vello d’oro alla giubba di Tancredi di Salina, è leggenda o letteratura degli ultimi cento e più anni: bellissime narrazioni, necessarie anzi a forgiare l’animo romantico del popolo e cullare gli ozi dei dotti, ma sempre narrazioni. Il sangue versato tra italiani invece rese triste sempre Garibaldi, che scelse ognora la strada del compromesso, ove possibile, al fine di evitare lo scontro tra popoli che egli inequivocabilmente considerava fratelli e figli della medesima Madre comune, l’Italia. Chi poté e poteva dubitare della sincerità del suo alto ideale?
L’impresa si compie in autunno, con l’incontro –anche questo idealizzato non poco- di Teano, l’ingresso delle truppe piemontesi, l’annessione al costituendo Regno d’Italia. Non era Garibaldi medesimo che, egli fiero repubblicano e costruttore nel Rio Grande della Repubblica del Sud della Plata, poi difensore di Montevideo dalle mire del tiranno brasiliano Rosas (il quale gli offrì in quegli anni di divenire ricchissimo e capo della flotta navale del Brasile: altri avrebbe accettato, ieri come oggi, non Garibaldi che incedeva col ‘poncho’ il quale, rapportano gli incaricati d’affari britannici a Montevideo, indossava onde nascondere il vestito lacero, perché non aveva denaro per acquistarne altri…), aveva a Salemi assunto la Dittatura di Sicilia “in nome di Vittorio Emanuele Re d’Italia”? Ed ora tornava privato cittadino, spoglio di onori che pure gli erano stati offerti, e sdegnosamente rifiutati, poiché era in ogni caso un incorruttibile (solo chiese, e non ottenne, dai politicanti del governo che i garibaldini fossero immessi nell’esercito regolare), nell’isola di Caprera, che aveva scelto come rifugio, come vetta d’aquila ove riposare, ma per poco, le stanche membra. Vi fu anche della posa, ma prevalse la sincerità e lo sdegno, pure venato da un fidente sorriso (fiducia che l’anno dopo sarebbe caduta col projettile scoccato da italico fucile, su l’erta di Aspromonte), la sera del 9 novembre 1860, allorché il generale s’imbarca sul vapore Washington, verso Caprera. Quando giunge, scrisse Giovanni Pascoli in una felice commemorazione, “è felice; sbarca la sua preda, il favoloso corsaro: un po’ di zucchero e di caffè, una balla di stoccafisso, un sacco di semente…” . In casa “non ci sono seggiole: ecco, gli ufficiali del Washington danno le loro, scrivendovi su, ognuno, il loro nome”. Questa la misura dell’uomo, “duce umano”, continua il Pascoli, “calmo e sorridente, immerso in una perenne immutevole serenità”. Un uomo di fede, di sentire religioso, molto distante dai confessionalismi che jeri come oggi imperversano ed a volte soffocano gli ideali di Libertà, e possono occultare con funesta tenebra, la Luce perenne. Ma egli con l’intemerato esempio di italiano onesto è sempre lì, nelle piazze, nelle vie, nelle strade e dovrebbe entrare vieppiù nei cuori dei giovani, insegnando con linguaggio che non può ripetersi, quale sia il sentiero da percorrere, verso l’infinito di un sogno che, alfine, si realizza.

Barone di Sealand

Pubblicato su Sicilia Sera n°332 del 5 ottobre 2010

In Romania riesumato Ceausescu: significato occulto?


Un capitolo di storia che ritorna dopo venti anni

Riesumato in Romania il cadavere di Ceausescu: quali significati?

Fu un leader amato dalle potenze occidentali, ancorché appartenente al blocco comunista, per le sue posizioni politicamente eterodosse – La crisi attuale romena e le scaturigini occulte -


Quando, una ventina di anni fa, andammo in un pomeriggio d’estate al cimitero ortodosso di Ploiesti, alla periferia nord di Bucarest, capitale della Romania, erasi spenta da pochissimo l’eco della “revoluzia”, ovvero la rivolta popolare che portò alla caduta del regime comunista dopo quarantasei anni, ed alla morte violenta del capo dello stato e del partito, il Presidente Nicolae Ceausescu e la moglie Elena, fucilati il 25 dicembre 1989 dopo un sommario, ed esitante, processo improvvisato. Eravamo lì anche per rendere omaggio a quei poveri resti che, si diceva, senza alcuna indicazione di nome, fossero sepolti: separati, a pochi metri di distanza l’uno dall’altra. Tutti ivi sapevano di chi si trattasse, fra le tombe dei cittadini comuni: pure, correva voce che ivi non fossero stati sepolti i veri coniugi Ceausescu, che governarono la Romania per ventiquattro anni, ma dei sosia, delle controfigure. Tornammo dopo un paio d’anni in quel cimitero: una piccola lapide celebrativa era stata messa a ricordo del defunto dittatore, per la moglie solo il nome inscritto in semplice legno.
Questa storia ci tornò ben chiara nella memoria, allorché nelle scorse settimane, precisamente il 21 luglio, i cadaveri, presunti, dei Ceausescu sono stati riesumati proprio dalle tombe da noi visitate, per ordine della Magistratura romena la quale sin dal 2004 aveva ricevuto la richiesta della figlia della coppia, Zoe, una matematica (oggi defunta: la causa è proseguita dal marito Mircea Opran), che desiderava accertare se davvero delle spoglie mortali dei genitori si tratti. Lo stabilirà in questi giorni il test del DNA, comparato evidentemente sui parenti superstiti (supponiamo dei nipoti; poiché l’altro figlio, Nicu, è anch’egli morto per cirrosi epatica, ed il terzo Valentin, è adottivo). L’avvenimento ha per un paio di giorni, come appare, fatto quasi ridestare, in modo allegorico, l’interesse su colui che in vita era definito il “Conducator” e “geniul din Carpazi”, vezzeggiato dalle cosiddette potenze occidentali e dai governi del patto atlantico nonché dagli stessi Stati Uniti molto ben accolto, poiché ‘ribelle’ sovente, pure facendo parte del blocco comunista e del patto di Varsavia, alle direttive di Mosca. Nicolae Ceausescu giunse alla guida della Romania nel 1965 dopo la morte di Gheorghe-Gheorghju Dej, un forte burocrate comunista ispirato da Stalin e poi da Kruscev; prima, la Romania liberata, meglio sarebbe dire occupata, nel 1944 dalle truppe dell’Armata Rossa, era sotto l’usbergo feroce di Ana Pauker, una funzionaria spietata dell’Internazionale Rossa, che non si peritò di mandare a morte i superstiti del precedente regime, fece esiliare il Re Michele (che ora è tornato a vivere in patria), e guidò il PC romeno, sino a che Stalin la fece ‘epurare’, per un governo più morbido, al cui vertice era un liberale formale come Petru Groza: ciò secondo gli accordi di Yalta fra Churchill, Stalin e Roosevelt.
Di Georghiu Dej Ceausescu era stato il massimo collaboratore: ma il breznevismo che proprio allora iniziava il suo corso nell’URSS, mentre ivi significò all’inizio innovazione per poi adagiarsi nell’irrigidimento della guerra fredda degli anni Settanta, per il nuovo capo dello Stato e del Partito romeno, ebbe valore di slancio pan-nazionalistico e vigore: durante il primo decennio si ebbe in Romania uno sviluppo del tenore di vita della popolazione, stato socialista quindi estremamente centralizzato, che persino le nostre fonti di occidente lodavano quale il migliore di tutte le nazioni del blocco comunista. Mentre Ceausescu in politica estera volle subito precisare il suo indipendentismo con rifiutarsi di partecipare alla invasione di Praga del 1968, stringeva accordi con le potenze occidentali (gli Stati Uniti diedero alla Romania la clausola di nazione privilegiata per il commercio, così la CEE), partecipava regolarmente alle Olimpiadi boicottate da Mosca (destò scalpore la presenza delle squadre romene a Los Angeles nel 1984), era ricevuto alla Casa Bianca da Nixon, Carter ed a Buckhingam palace dalla Regina Elisabetta, si era investito del patronato di amico degli stati centro africani (Mobutu era il migliore suo alleato nel continente nero); e mentre decideva di dedicarsi alla ricerca petrolchimica negli anni Settanta, il debito contratto con l’FMI avanzava. Questo non gli impediva di mantenere ottime relazioni diplomatiche con Israele (unico paese del blocco sovietico), e di rifiutarsi di condannarne le azioni (specie dopo le guerra del Kippur). Insomma, ad onta del ritratto che negli ultimi anni è passato alla vulgata storica, Nicolae Ceausescu fu un capo di stato comunista ‘buon amico’ dell’Occidente. Persino dall’Italia, il cui eurocomunismo berlingueriano egli sostenne, i suoi discorsi e le sue prose poetiche erano tradotte ed apprezzate. Con l’Italia poi la Romania, per via delle comuni origini linguistiche, ed in parte etniche, latine, ha avuto ed ha tuttora rapporti privilegiati. La sua tragedia fu di intestarsi a ripianare, cambiando la Costituzione con una clausola che impediva alla Romania di contrarre nuovo debito con l’estero (fu il primo articolo che il novissimo governo a lui succeduto, mutò nei primi giorni della cosiddetta “revoluzia”: il che getta non pochi sospetti sulla pianificazione di quello che fu, sostanzialmente, un colpo di stato), appunto i debiti finanziari contratti col Fondo Monetario Internazionale: per tutti gli anni Ottanta i romeni compirono sforzi enormi (ossia sacrifici immensi nel senso della mancanza a volte anche dei beni di prima necessità…) per ripagare le multinazionali finanziarie dell’Occidente, e proprio a fine estate del 1989 il debito era stato completamente rimesso. Non fu un caso che entro pochi mesi, in circostanze che vent’anni dopo emergono più chiaramente, egli venne assassinato ed il nuovo regime riaprì i cordoni del debito pubblico, con le conseguenze dell’oggi. Il 25 giugno scorso infatti vi è stato un assalto al palazzo presidenziale di Bucarest (lo stesso del noto ultimo discorso del 21 dicembre 1989 di Ceausescu, quello in cui venne artatamente fischiato da parte della folla) da parte di circa seicento persone, respinto con violenti scontri dalla polizia. I romeni chiedevano al presidente del Consiglio Emil Boc di sospendere le misure del governo che tagliano il 25% degli stipendi ed il 15% delle pensioni; si aggiunge la richiesta al Presidente della Repubblica Basescu, da poco rieletto, di non firmare la legge. Per queste ragioni il Fondo Monetario Internazionale ha chiesto l’approvazione della Corte Costituzionale romena prima di concedere l’ulteriore prestito. In questo frangente attuale, estremamente drammatico per la Romania (denunciato dal PRM, partito Romania Mare, ossia grande,il più numeroso tra le compagini dell’opposizione), si è svolta la ‘resurrezione virtuale’ di Nicolae Ceausescu. Quale il significato occulto, oltre il velo della forma ufficiale?
E’ oramai risaputo da molti, che i veri reggitori dei governi internazionali non son davvero coloro che vediamo nelle tv, ma uomini nascosti i quali mai si fanno notare, però reggenti le fila della grande finanza e della economia mondiale. Da molte inchieste coraggiose, si sa che questi si riuniscono in gruppi ‘di studio’ e lobby di potere, come il Bildeberg, la commissione Trilateral, il Council of Foreing Relations, e simili. Costoro sono legati, sovente, dal vincolo associazionistico e fraterno della Massoneria, la quale è una entità sopranazionale ed anche centro di coagulazione indispensabile per unire uomini ed idee altrimenti disperse ed opposte. Sulla filosofia massonica, nulla abbiamo da eccepire, a differenza dei seguaci di un certo cospirazionismo. Notiamo soltanto che, come da ambienti afferenti è noto, Nicolae Ceausescu (la moglie Elena probabilmente: tuttavia ella, donna poco istruita ma intelligentissima, fu l’autentica dominatrice dell’animo del marito, specie nell’ultimo quindicennio; ebbe pure cariche politiche, essendo primo Vice Presidente del Consiglio) era affiliato alla antica confraternita della Massoneria internazionale. Questo spiegò allora, e spiega meglio oggi, i suoi atti eterodossi dal punto di vista della politica estera. Comunista, meglio ancora socialista fervente, non ebbe esitazioni nel legare con Nixon ed il generale De Gaulle, pure essendo amico personale del Presidente della Germania est Erich Honecker (che morirà in esilio in Cile, nel Cile dell’anticomunista generale Pinochet, dopo la caduta e la dissoluzione della DDR: sia Pinochet che Honecker, come appare quasi certo, erano legati dal vincolo iniziatico del giuramento massonico); impose la partecipazione agli utili degli operai nelle fabbriche nazionali (lesse certamente i documenti corporativi della Repubblica Sociale Italiana: ma ebbe la possibilità di applicarli… pertanto era anche molto ben visto da ambienti italici ‘di destra’, per quanto ciò possa apparire incongruente…), e fu insignito da alte onorificenze dalla Regina d’Inghilterra (gli vennero revocate solo un giorno prima del suo assassinio: come se in alto loco si sapesse…). Pure la medesima scomparsa di colui che instaurò uno dei più sistematici culti della personalità di tutti i regimi comunisti, è avvolta dall’aura massonica: pare che poco prima della scarica mortale della fucileria, egli stesse cantando l’Internazionale: e non è codesto l’inno socialista dei lavoratori di tutto il mondo, le cui parole furono vergate da quel francese operaio, Eugene Pottier, notoriamente affiliato (come del resto Ho Chi Minh e, probabilmente, Deng Xiaoping) a quella che i massonofobi appellano la ‘setta del serpente verde’, ossia al Grande Oriente di Francia?
Infine, per chi vuol leggere (siamo oltremodo convinti che in ambienti di occultismo internazionale sia stata data una lettura similare) la ‘resurrezione’ del cadavere di Ceausescu e della moglie (se son davvero loro: rammentiamo che egli, come altri noti dittatori, ebbe tre o quattro sosia: uno in particolare, Andruza, era il fratello gemello: se si scoprirà che i cadaveri non son quelli autentici, sarà altro mistero nel mistero…) in chiave di numerologia esoterica, il 21 (giorno del dissotterramento), il sette (mese di luglio, e settimo mese dopo i vent’anni), e le cifre dell’anno, secondo gli Arcani maggiori (e le letture di Gebelin e Levi) intendono significare il mondo, guidato dal carro ben recintato, che va verso il giudizio, il quale è vicino, comunque orientato da Iside, la papessa, ed Osiride, il mago, attorniati dalla matta folla. Per quei che invece si dilettano di vampirismo (l’eroe nazionale romeno, Vlad Tepesc, cristiano combattente contro i turchi, ha avuto da Bram Stoker la jattura di essere assimilato al personaggio diu Dracula nell’omonimo romanzo ottocentesco: Ceausescu, che pare andasse a ‘rigenerarsi’ esotericamente nel castello di Vlad a Snagov, fu paragonato a Dracula; ma anche Bram Stoker era affiliato all’ordine riservato, e paramassonico, della Golden Dawn…), sia sufficiente la testimonianza di Gelu Voican, oggi ambasciatore romeno in Tunisia e componente del tribunale improvvisato che condannò a morte i Ceausescu, il quale ha dichiarato recentemente che, quella notte, si videro sparire e poi riapparire i sacchi contenenti i due cadaveri: c’era la luna piena. E cinque giorni dopo, nel seppellirli, il corpo dell’ex dittatore era caldo, come se dormisse.
A noi piace ricordare l’uomo, indubbiamente colpevole di molti misfatti ma anche molto meno criminoso di quanto se ne sia detto sinora, con un poema che egli scrisse negli anni settanta, parafrasando (non era ciò un caso, per un ateo comunista: il quale però permetteva il libero culto nelle chiese, dalle ortodosse alle cattoliche alle sinagoghe..) Isaia, 5,4: “Fateci trarre trattori da cannoni \ Dalle luci e sorgenti atomiche, \ Dai missili nucleari \ Aratri per lavorare i campi”. Se la società oggi applicasse codesti precetti, ancorché provenienti da un cosiddetto tiranno, molti mali sarebbero sanati. Scrisse Santa Teresa d’Avila: “Se Satana potesse amare”, e chi dice che non lo può, ci permettiamo di aggiungere, “smetterebbe di essere cattivo”.

Barone di Sealand


Pubblicato su Sicilia Sera n°332 del 5 ottobre 2010