lunedì 2 agosto 2010

L'Etica tra la ragione e la religione


L’esempio deve praticarsi dall’alto


Tornare al giusto concetto di Etica nella ragione e nella religione


I frequenti appelli del Papa alla morale, interpretata dalla dottrina della Chiesa, non hanno
contraltare nel mondo secolarizzato – La parola luminosa del Voltaire e l’accordo fra i giusti -


Le ultime vicende di corruzione che imperversano attraverso la stampa, continuano a trasmettere il messaggio comune che, se la morale popolarmente intesa è in pieno decadimento, non sussiste neppure una autorità superiore che può farsi latrìce di una qualsivoglia interpretazione ed applicazione della medesima, mentre le supreme autorità statali, sin dalla concezione dell’idea pura di Nazione, hanno –specie negli ultimi decenni- affatto rinunziato ad ergersi quali garanti di una corretta applicazione dei cosiddetti principi etici. Per essere più precisi, formuliamo un esempio banale: ove un cittadino ritenga di patire ingiustizia, si rivolge con fiducia alla Magistratura, che è –massime in Italia, poiché, per chi non lo rammenti, è dalla Suprema Corte che deriva il medesimo riconoscimento dello stato repubblicano, nel giugno 1946, ben più pregnante dell’oramai discusso e storicamente falso referendum sulla forma del governo- la garante massima del Diritto. Il quale in certo senso si investe di cognizione etica. E però, le vite private di quella corporazione, tra le tante in Italia ma certo più possente, dei Magistrati, non possono essere oggetto di giudizio in virtù della riservatezza della vita privata. In altre parole, chi amministra giustizia e in certo senso, morale, non può essere oggetto di moral questione. Allor ci si volge alle religioni, che dell’Etica fanno il fulcro della loro azione, strettamente connessa all’insegnamento pedagogico:il Cattolicesimo romano in particolare, nostra fede predominante. Sono frequentissimi i richiami dell’attuale Santo Padre, forse più dei predecessori, per una applicazione stringente ed aderente ai valori cristiani e della dottrina sociale della Chiesa, di quel concetto che egli stesso, in una allocuzione il 22 maggio u.s., ha appellato "Ethos mondiale": "Senza il punto di riferimento rappresentato dal bene comune universale non si può dire che esista un vero ethos mondiale e la corrispettiva volontà di viverlo, con adeguate istituzioni. È allora decisivo che siano identificati quei beni a cui tutti i popoli debbono accedere in vista del loro compimento umano… Ciò che, però, è fondamentale e prioritario, in vista dello sviluppo dell’intera famiglia dei popoli, è l’adoperarsi per riconoscere la vera scala dei beni-valori. Solo grazie ad una corretta gerarchia dei beni umani è possibile comprendere quale tipo di sviluppo dev’essere promosso… Esso è dato specialmente dall’incremento di quelle scelte buone che sono possibili quando esista la nozione di un bene umano integrale, quando ci sia un telos, un fine, alla cui luce viene pensato e voluto lo sviluppo" (cfr. ai partecipanti del Convegno della Fondazione Centesimus annus). Benedetto XVI inoltre, da finissimo teologo, torna sovente sulla relazione fra tomismo, razionalità e fede (cfr. udienza del mercoledì 16 giugno u.s.); nel precisare la figura del sommo Aquinate, non ha taciuto il riferimento importante alla consociazione di etica e principii inderogabili, nel mondo moderno.
Insomma anche affrontando i noti scandali allignanti nel suo interno, la Chiesa attraverso il magistero petrino si sforza di fornire, a credenti e non credenti, una via non diremmo propriamente solo di salvezza, ma di comportamento specchiato.
Quel che scandalizza in una società fortemente secolarizzata è che il rapporto etico appare assolutamente deficitario, in coloro i quali fanno professione di libero pensiero, di superiorità di atteggiamenti, in un termine di spòcchia intellettuale. Tra codeste categorie, libertine ne’ costumi come nel linguaggio, sono preponderanti i politici della nostra Patria. E’ semplicemente vergognoso sentir ciarlare taluni (non si fanno qui nomi per non insozzare le pagine orgogliose del giornale…) in termini che in altri tempi si sarebbe detto da osterìa, come altri non applicare il precetto senechiano secondo cui ci si deve sempre comportare come se tutti ci osservino, percorrendo le strade della rettitudine. Financo si assiste al farisaico comportamento di chi si permette di stigmatizzare, per rimanere nel solco dell’evangelo, la pagliuzza nell’occhio dell’altro, mentre la trave nel suo occhio è abnorme e macroscopica. Gli è che gli insegnamenti di quel Maestro supremo a cui tutti debbono riverenza, il dolce Rabbi di Nazaret, il quale ripetè spesso che "chi è senza peccato fra voi, scagli la pietra", sono dai molti, e dai politici in primis, non solo disattesi ma traditi: massime da coloro, i più colpevoli, che si cingono i fianchi della veste immacolata del battesimo, si professano cristiani e spargon voci di comportarsi come tali. Mentre l’apostolato non ha affatto bisogno di trombe, né di fanfare: opera nel silenzio e nella preghiera, quella del cuore prima, le altre –chi vi crede- solo poi.
"Esiste una sola morale, come esiste una sola geometria. Mi si opporrà che la maggior parte degli uomini ignora la geometrìa. E’ vero, ma ogni uomo se appena la studia un po’, vi si trova d’accordo. Così gli agricoltori, i manovali, gli artigiani, non hanno mai seguito dei corsi di morale, non hanno mai letto il De finibus di Cicerone, né le varie Etiche di Aristotele: ma non appena riflettono un po’ sull’argomento, diventano senza saperlo discepoli di Cicerone: il tintore indiano, il pastore tartaro e il marinaio inglese, riconoscono allo stesso modo il giusto e l’ingiusto… La morale non sta nella superstizione, e neppure nelle cerimonie; e non ha niente di comune coi dogmi. Non ripeteremo mai abbastanza che mentre i dogmi delle religioni sono diversi fra loro, la morale è la medesima fra tutti gli uomini che sanno far uso della ragione. La morale ci viene dunque da Dio, come la luce. Le nostre superstizioni non sono che tenebre. Rifletti, o lettore: applica questa verità, e traine le conseguenze". E’ la voce "Morale" del Dizionario filosofico del Voltaire, datata 1764: mai cronologia fu più aleatoria, essendo cotali sacrosante parole universali per tutti i popoli e valide per ogni essere umano che abbia il concetto del bene e della rettitudine ben levigata a colpi di squadra e mazzuolo.
Laddove un filosofo illuminato nel gran secolo, il Settecento, ha indicato la via, oggidì solo scampoli di coloro che crédonsi gli epigoni, possono portarne la fiaccola. Le conciliazioni importantissime e grandiose che la Chiesa (dal Concilio Vaticano II) e gli esponenti del mondo della Luce senza tramonto, per usare un eufemismo, consentirono al fine di impostare senza tentennamenti un cammino comune, le cui linee maestre forse permangono ascòse, perché tempi di fanatismi ora sono evidentemente emersi, rappresentano pur sempre la fiaccola intramontabile, l’arca dell’Alleanza del buon fine dei popoli. Pure, non mancherà di tornare il sereno, e dall’alto come dal basso l’Etica sarà la guida di capi, di popoli e di chiese. Come era un tempo, sin dall’inizio dei tempi, secondo la legge di Melchisedek.


Bar.Sea. (Francesco Giordano)


Pubblicato su Sicilia Sera n° 331 del 1 agosto 2010

Morte ai preti pedofili: lo dice anche la Chiesa

Autorevole insegnamento della Santa Sede

Morte ai (preti) pedofili: ora lo dice anche la Chiesa


La prestigiosa parola di padre Scicluna in riparazione agli abusi dei sacerdoti, può essere un valido suggerimento ai nostri politici – Anche in antichi tempi si puniva così la pederastìa -


La parte di opinione pubblica ancor pervasa da quelli che un tempo si usava definire sani principi, rimane affatto orripilata nel leggere –e gli operatori della informazione hanno in tal senso una gravissima responsabilità- gesta turpi di abominio nei confronti di minori, casi spaventosi di pedofilia i quali vengono sovente amplificati ed a volte descritti ne’ loro macabri particolari, quasi soddisfacendo a sorta di sporche voglie di conoscenza, di taluni. Chi poi ha il dono de’ figlioli, e cerca di educarli secondo l’Etica in senso assoluto, avverte un tale sdegno, se ha ancor sangue nelle vene, da chiedere all’Altissimo di contenersi: tale crediamo sia reazione prettamente umana. Da parte nostra, ed anche da queste colonne, più volte elevammo la nostra voce a perenne e perpetua condanna di tali assassini: per i quali uno stato che si dica civile, non può che comminare l’estinzione di quella che non è più vita, ma offesa al genere sociale: ossia, metterli a morte.
Per fortuna, comunità statali sostenute dai popoli delle nazioni soggette (dagli Stati Uniti al Giappone, dall’Arabia Saudita, tanto criticata per altri versi, alla Cina: quindi i popoli più numerosi della terra) mantengono nel loro ordinamento giudiziario la pena di morte, per delitti tanto gravi e pericolosi per la società. Triste primato all’inverso, quello dell’Italia, che più volte anche in consessi internazionali, invece di difendere la vita dei piccoli sin dal concepimento, si fece indegna portavoce della abolizione della pena capitale, sancendo così punizioni affatto inadatte a tali generi di crimini. Uno stato etico non può e non deve che comminare l’estinzione fisica di codesti esseri, che da se medesimi si autoescludono dal genere umano. Questo nostro pensiero, sappiamo essere minoritario nella opinione pubblica italiana: epperò, anche in seguito ai casi vergognosi di recente scoperti, se il più alto consesso religioso, ossia la Chiesa Cattolica ed Apostolica Romana, si esprime ufficialmente, seppure riguardo ai preti accusati e confessi di pedofilia, a favore della loro morte, la caratura della questione muta, a parer nostro, di molto. Sarebbe infatti un bene che i colleghi giornalisti, adusi a cincischiare e trastullarsi con amenità, facessero rimbalzare continuamente le parole del promotore di giustizia della Congregazione per la Dottrina della Fede, padre Charles Scicluna, il quale il 29 maggio ha guidato in San Pietro una preghiera di riparazione per i delitti commessi dai sacerdoti pedofili.
In questo autorevole consesso, ha egli affermato la parola di Dio, per coloro che vi credono, nel noto passo evangelico (più volte da noi rammentato, e finalmente eretto a vessillo in modo perfetto, dalla Santa Sede) secondo cui "Chi scandalizza uno di questi piccoli che credono, e' meglio per lui che gli si metta una macina da asino al collo e venga gettato nel mare". Il Padre Scicluna ha quindi precisato quale deve essere il comportamento verso i sacerdoti pedofili, rifacendosi a San Gregorio Magno: "chi dopo essersi portato ad una professione di santità distrugge altri tramite la parola, con l'esempio, sarebbe davvero meglio per lui che i suoi malfatti gli fossero causa di morte essendo secolare piuttosto che il suo sacro ufficio lo imponesse come esempio per altri nelle sue colpe, perchè tendenzialmente se fosse caduto da solo il suo tormento nell'inferno sarebbe di qualità più sopportabile". Secondo il promotore di giustizia nominato dal Papa, "la Chiesa ha sempre avuto cura per bambini e deboli" e considera il bambino "icona del discepolo che vuole essere grande: accogliere il Regno di Dio come un bambino significa accoglierlo con cuore puro, con docilità, abbandono, fiducia, entusiasmo, speranza". Ma "questa icona così santa è calpestata, infranta, infangata, abusata, distrutta". Per questo "esce dal cuore di Gesù un grido di eco profonda, 'lasciate che i bambini vengano a me: non glielo impedite, non siate d'inciampo nel loro cammino verso di me, non ostacolate il loro progresso spirituale, non lasciate che siano sedotti dal maligno, non fate dei bambini l'oggetto della vostra impura cupidigia… Accogliere il Regno di Dio come un bambino significa accoglierlo con cuore puro, con docilità, abbandono, fiducia, entusiasmo, speranza. Il bambino ci ricorda tutto questo. Tutto questo rende il bambino prezioso agli occhi di Dio e agli occhi del vero discepolo di Gesù. Quanto invece diventa arida la terra e triste il mondo quando questa immagine così bella e' calpestata… Quanti peccati nella Chiesa per l'arroganza, per l'insaziabile ambizione, per il sopruso e l'ingiustizia di chi si approfitta del ministero per fare carriera, per mettersi in mostra, per futili e miseri motivi di vanagloria". Inoltre colui che si può arguire essere la longa manus di Benedetto XVI in casi così gravi, ha ricordato altro determinante passo della Sacra Scrittura, secondo cui è meglio espungere il membro corporale che infetta il tutto, che mantenerlo intatto: ovvero isolare i colpevoli. "Diversi Santi Padri interpretano la mano, il piede, l'occhio come l'amico caro al nostro cuore, con cui condividiamo la nostra vita, a cui siamo legati con legami di affetto, concordia, fraternità. C'e' un limite a questo legame… Se il mio amico, il mio compagno, la persona a me cara è per me occasione di peccato, è per me un inciampo nel mio peregrinare io non ho altra scelta secondo il criterio del Signore se non di tagliare questo legame. Chi negherebbe lo strazio di una tale scelta? Non è forse questa una crudele amputazione? Eppure il Signore è chiaro: è meglio per te entrare da solo nel Regno, senza una mano, senza un piede, senza un occhio, che con il mio amico andare nella Geena, nel fuoco inestinguibile. Questa immagine così forte delle membra, del corpo, ci mette senza troppa confusione di fronte allo specchio della nostra coscienza".
La Chiesa Cattolica guidata con sapienza da Papa Benedetto, sta davvero vivendo una nuova primavera d’amore e di fede, laddove da codeste parole dure ma estremamente necessarie, si può trarre un insegnamento al popolo: soprattutto i politici del nostro Parlamento, molti apparentemente professantisi cristiani, dovrebbero adoprarsi al fine di applicare anche in uno stato laico ma rispettoso della sensibilità religiosa, le indicazioni che provengono da oltre Tevere. Alle quali ci permettiamo di aggiungere il noto passo del Levitico sulla pederastìa, qui trascritto, per maggiore ampiezza incisiva, nella autentica lingua del Magistero, in Latino: "Qui dormierit cum masculo coitu femineo, uterque operatus est nefas: morte moriantur; sit sanguis eorum super eos" (Lev.20,13).
E se qualche bello spirito avesse da obiettare, anche in senso anticlericale, che le pene anti pederastìa sono inapplicabili a’ tempi moderni, o che da parte della Chiesa non è il caso di insistere, si potrebbero ricordare molti casi in cui lo Stato dell’antica Roma, il quale soggiaceva a ben altra religione che la Cattolica, era assolutamente severo nei confronti dei delitti contro la pudicizia. "Ciò mosse Caio Mario, generale, allorché proclamò la legittimità dell’uccisione del tribuno militare Caio Lusio, figlio di sua sorella, da parte del soldato semplice Caio Prozio per aver osato adescarlo a farsi violentare" (Valerio Massimo, Detti memorabili, VI, I 12). La grande tradizione delle antiche civiltà ben più del Cristianesimo, forgiò leggi severissime contro le inversioni sessuali e, proprio perché quelle assalivano parti della popolazione, si premurò di reprimerle con la maggiore durezza. Per fortuna dei tempi antichi, non vi era l’amplificazione scandalosa che di cotali delitti la TV oggidì compie, quasi diffondendo –pur nella forma anodina di servizio offerto, per cui naturalmente si può scegliere quale programma seguire: il medesimo ragionamento si applica alla rete Internet, non demonica in sé , ma cangiante per l’uso che se ne fa- semi di dissoluzione. E’ quindi importantissimo che da parte della Santa Sede, la quale combatte una santa battaglia contro le perversioni del mondo e del suo medesimo corpo (mistico, nella lettura del credente), affiancata a quella, altrettanto sacrosanta, per il recupero della antica liturgia in lingua Latina, mercé il Motu proprio "Summorum Pontificum" che vuole la celebrazione del rito preconciliare al fianco dell’Ordinario nelle lingue nazionali, vi sia stata tale autorevole indicazione magisteriale, di un percorso chiaro e netto contro ogni forma di deviazionismo e di deteriore lassismo. I tempi odierni, senza mai dimenticare il messaggio d’amore che la Tolleranza suggerisce, non consentono del resto ulteriori tentennamenti. Parole dure e chiare, in evo oscuro. Ove senza alcun dubbio, anche tra le tempeste e le procelle quasi misteriose e la sfiducia che avvolge ciascuno nei momenti buj, mai è assente quella mano fraterna, quella Luce dell’Angelo, che presiede al reggimento degli universi. Con le ispirate parole di Gerolamo Savonarola (dalle Meditazioni sul Salmo 50): "L’abisso della misericordia è più grande dell’abisso della miseria, perciò l’abisso colmi l’abisso, l’abisso della misericordia colmi l’abisso della miseria".


Barone di Sealand (Francesco Giordano)


Pubblicato su Sicilia Sera n° 331 del 1 agosto 2010

Carlo Delcroix, eroe d'Italia e aedo del dolore


Un soldato ed eroe oggi dimenticato


Carlo Delcroix, aedo del Dolore


Gloriosamente mutilato nella Grande Guerra, seppe ascendere alle vette del lirismo narrativo e
Fu simbolo degli Invalidi per cause militari – La sua parola sempre viva -
 
Quando la nera Signora si avvicina tanto da ghermire il flebile corpo del dio in forma d’uomo, naturale è che egli resista: battaglia estrema, ma ove la si vinca, rimane per sempre il segno. Abilità suprema dell’anima è trasfondere la cicatrice, il marchio perenne della Tenebra, in Luce infinita a cui possano abbeverarsi i miseri, gli altri fratelli colpiti dal dolore. Potrebbe essere condensata così la vita apostolare di Carlo Delcroix, militare eroico, grande italiano, medaglia d’argento al Valor Militare, figura oggidì –in tempi di oblìo di fulgidi esempi di immemore patriottismo- dimenticata dai molti, e però ricordata da quanti credono ancora nella virtù sublime del sacrificio che si rende santo, nell’esempio che rimane a governare i sopravvissuti. In tempi ove taluni, tra mille difficoltà, si ingegnano a celebrare il cento cinquantesimo della Unità italiana, mentre altri la minano artatamente, a noi pare assolutamente necessario ricordare questo grande figlio della nostra Patria, che visse sino a non molti anni fa, martoriato sì nel corpo ma lucidissimo nell’anima, trasparente megafono della vita come era anche ferita vivente della violenza che gli ghermì, senza tuttavolta fiaccarlo, le carni.
Come spiegare a’ giovani del XXI secolo chi fu, chi è ancora Carlo Delcroix? Si risponderebbe subito, senza retorica ma con convinzione assoluta: un eroe. Un eroe vero, non costrùtto nel mito, non incasellato in una bolgia di ipocrisie, non immerso in un oceano di menzogne: un eroe autentico, un apostolo del Dolore, questo "dio senza altari", come egli scrisse, che diede forza e vividità a coloro che come lui furono duramente colpiti dalla guerra. Poiché se vi fu conflitto che chiuse il Risorgimento e cementò per sempre quella Unità d’Italia che in queste settimane si celebra, a volte senza memoria, questo è stato il primo, ovvero la cosiddetta "grande Guerra". In quella pugna micidiale e fervida di sangue e di gloria, decine di migliaja d’Italiani, dal più profondo Sud alle lande nordiche, unironsi al Comando supremo del Re –che allora davvero incarnava la forza, il faro della Patria: quel Re soldato che fu tra loro, in trincea, al convegno di Peschiera difese la Nazione dall’arretramento quasi voluto anche dagli Alleati; quel Vittorio Emanuele III che anni dopo garantiva ancora, còlla sua persona piccola ma d’acciajo, la continuità dello Stato, come anche il Presidente emerito Ciampi ha pubblicamente riconosciuto nel 2003- per compire il destino inevitabile. Pugna sentita, come non lo fu la seconda guerra; pugna olocausta, ove molti si gettarono in ardente estasi.
Tra i tantissimi, il tenente del 3° Bersaglieri Carlo Delcroix di Firenze, ove era nato nell’agosto del 1896, papà belga, mamma italiana: coll’ardore dei vent’anni aveva svolto coraggioso servizio nelle Alpi, nella Marmolada, conquistato il Col di Lana. E fu proprio in una sventurata esercitazione, per salvare delle vite di soldati, che si svolse l’incidente che lo mutilò alle mani e lo privò della vista. Così il racconto del collega tenente Minghetti: "Delcroix era sulla neve, in una pozza di sangue. Aveva perduto le mani e gli occhi ed appariva ferito in molte altre parti del corpo… Gli occhi afflosciati e senza vita erano imbevuti di sangue nero, il viso e le labbra gonfie erano come bruciati dalla vampa dell’ esplosione. Centinaia di schegge gli si erano conficcate in tutto il corpo, specialmente nell’ addome e nel torace, con ferite profonde… I moncherini delle braccia mostravano un impasto sanguinolento di muscoli, tendini, nervi e ossa violentemente spezzate." A dispetto delle enormi perdite di sangue, la giovinezza prorompente gli impose di vivere, ed egli visse. Era un appassionato degli studi,  Letteratura e Giurisprudenza: ricevette poi la laurea honoris causa. Mùtilo e cieco, non lo era nell'oratoria, di cui divenne maestro con insperata abilità: pronunziava comizi infuocati ai militari ed ai civili, divenendo in pochi anni il simbolo dei Mutilati d’Italia, della cui Associazione Nazionale fu il Presidente. Anche fondò e presiedé l’Unione Italiana Ciechi. Ebbe una retorica brillante, e non si sottrasse agli onori che il Fascismo gli tributò: del resto, era proprio il regime di Benito Mussolini che aveva dato ricetto e riscatto ai reduci, agli invalidi, ai mutilati della guerra, inquadrandoli non solamente sotto il profilo lavorativo ed amministrativo, nella nuova Nazione plasmata dallo Stato corporativo: ma ne aveva fatto quasi una bandiera, una mistica possente delle rivendicazioni nazionali. Carlo Delcroix nondimeno ebbe una assaj decisa e marcata propria personalità per soggiacere compiutamente all’autoritarismo fascista. La sua figura del resto fu sempre al di sopra di ogni sospetto di partigianeria, unanimemente riconosciuta quale unificatrice e simbolica dei mutilati combattenti eroi autentici della Patria. Pertanto rimaneva Presidente dei Mutilati anche nel secondo dopoguerra, e nel 1953 diveniva Deputato al Parlamento per il Partito Nazionale Monarchico. Era un convinto assertore della figura sacrale della Monarchia sabauda quale collante necessario della costruzione della Patria, e tale rimase, nei discorsi che per tutti gli anni Sessanta tènne nelle piazze della Nazione, per il PNM e poi il PDIUM, anche detto "Stella e Corona". Sposato e padre di figliolanza, Carlo Delcroix si spegneva ottantenne a Firenze nell’ottobre del 1977.
A noi rimane indelebile la sua parola di letterato: perché la vena poetica del Delcroix fu fervida e feconda. Chi ancor oggi, non più ristampati ma presenti nei negozi di libri vecchi, si imbatte ne "I miei Canti", in "Un uomo ed un popolo" (biografia di Mussolini commovente, alcune pagine della quale divennero antologiche: "Io non ho mai visto il Duce, ma dalla sua voce…") e "Quando c’era il Re", per citare tre fra i suoi molti libri, scopre una umanità immensa tra le piaghe dilacerate di un uomo felice anche nella sua sofferenza, e profondamente cristiano. Il libro che più disvela l’animo del letterato Delcroix è per noi "Sette Santi senza candele", del 1925, pubblicato, come quasi tutti, dal Vallecchi di Firenze: in esso la vena narrativa in parte di intonazione dannunziana –ove più tardi si scoprono influssi del Papini- si scioglie in un lirismo prosastico infinito, quasi sperdentesi tra le pagine ma coll’immancabile filo rosso della convinzione di essere l’araldo, la voce immarcescibile di coloro che non hanno voce, i "santi senza candele" appunto, i mutilati che tornarono alle loro case ed hanno, dopo aver versato il sangue per la Patria, diritto a quei riconoscimenti che non si spengono dopo i consueti piagnistei dell’immediato. "Chi nel ferro della catena sa martellare armi e corone o nella pietra del carcere può scolpire immagini e are, chi sa trarre nutrimento dalle sue ferite e ispirazione dalla sua pena, non sarà mai battuto, mai vinto. E io non sono un cieco perché credo e cammino; non sono una vittima perché lotto ed amo; non sono un mendico perché pòsso e dono; io sono un uomo da invidiare o da compiangere, come tutti gli uomini, con una vittoria di più, con un’arma di meno…". Egli si accorge che il monumento delle sofferenze umane, il Dolore, ha gli altari deserti: si fa quindi di questo nume sacerdote: "L’uomo eresse roghi e levò are a tutte le divinità ma non levò mai un tempio al dolore: questo dio sconosciuto visitò genti, attraversò le età e non ebbe dimora né trovò credenti ma la sua vendetta e la sua vittoria sono nella stessa incomprensione di quanti deprecando lo chiamano e rinnegando lo confessano non accorti di esserne invasi fino al delirio e posseduti fino allo spavento. Nessuno vi crede e tutti lo temono, nessuno lo accetta e tutti lo sentono che mai dio ebbe più testimoni e meno credenti". Adesso che si tenta pure di nascondere i testimoni contemporanei del dolore, esaltando quasi all’inverosimile il piacere pur di mascherare il resto, la voce di Carlo Delcroix appare quasi necessaria, forse più del tempo suo. Perché quando "l’umanità sarà sempre triste ma meno vile" avrà accettato, come nel dettato cristiano, il sacrificio quale "non più fato ma provvidenza: il dolore riconosciuto nume scopre il segreto della sua catena, annunzia i doni delle sue pene e il rimpianto diventa speranza e la necessità amore".
La poesia di Delcroix è infine un immoto volo, sulla scia dei grandi italici, verso la sublime ala della purezza: "Io non sono più quello che serravi \ al petto nell’angoscia del saluto; \ io sono un altro, un figlio sconosciuto, \ forse più tuo di quello che aspettavi… nulla è mutato presso il focolare, \ tu sei rimasta in me come quel giorno \ e pur non trovo né mi so trovare; \ dammi la mano e fammi andare intorno, \ non sono ancora stanco di cercare" (dedicata alla madre, L’altro figlio, da I miei Canti). Tempi di foschìe angosciose, di eclissi anche lunghissime, codesti: nondimeno, quel "sangue che è porpora di sole", in gratitudine all’anima del Delcroix, è necessario per continuare a sperare, per iniziare ogni giorno la rinnovata aspersione della vita.


Barone di Sealand (Francesco Giordano)


Pubblicato su Sicilia Sera n° 331 del 1 agosto 2010