martedì 7 dicembre 2010

Il Papa contri i capitali anonimi: ma se lo IOR...


Intorno alle operazioni finanziarie della Chiesa


Il Papa tuona contro i capitali anonimi: e lo IOR?


La banca ‘di Dio’ è un vero e proprio paradiso fiscale ed i movimenti di essa non sono
soggetti né a ricevute, né a tracciamento – Essere ed apparire -


Alla recente settimana sociale dei cattolici svoltasi a Reggio Calabria, nella sua conclusione il Santo Padre ha invitato a rendere incisivo l’impegno nella politica, nel sociale, nelle istituzioni, da parte di una nuova classe precipuamente di giovani, che facciano scaturire il senso autentico del messaggio cristiano. In frangenti quanto mai chiari di assoluta crisi, quasi vacatio, etica, è un auspicio condivisibile. Le linee erano state tracciate nei mesi scorsi: epperò ci pare importantissima l’affermazione di un discorso ‘a braccio’, pronunziato pochi giorni prima dal Pontefice, aprendo il Sinodo dei Vescovi del medio Oriente: tra le false divinità che opprimono il mondo, Benedetto XVI ha affermato: "Pensiamo alle grandi potenze della storia di oggi. Pensiamo ai capitali anonimi che schiavizzano gli uomini, che non sono più cose degli uomini, ma un potere anonimo dal quale gli uomini sono asserviti, tormentati, anche trucidati. Sono un potere distruttivo che minaccia il mondo". Non sono parole espresse a caso: il successore di Pietro quasi mai, tranne in condizioni di assenza di sanità mentale, disquisisce senza costrutto.
Nelle settimane precedenti, come qualcuno ricorderà, il Presidente dello IOR, la banca vaticana, Ettore Gotti Tedeschi, ed il suo direttore generale, sono stati iscritti nel registro degli indagati dalla Procura di Roma per violazione delle norme finanziarie anti riciclaggio, ovvero per aver fatto transitare dal Credito Artigiano della capitale ben 23 milioni di Euro, destinati alla Deutsche bank e poi in altri conti, senza che venisse indicato il beneficiario dell’uno e dell’altro capo dell’operazione. Ultimamente l’inchiesta si è allargata, avendo il Tribunale di Roma confermato il sequestro dei milioni di Euro, ed indagato su in assegno di 300 mila Euro a nome di una inesistente Maria Rossi, ed un prelievo contante di 600 mila euro a destinatario sconosciuto: non certo operazioni di trasparenza, per cui non è proprio il caso di manifestare stupore, come ha invece fatto il capo della sala stampa vaticana, p.Federico Lombardi. Le norme antiriciclaggio sono in Italia chiarissime. Dopo le parole del Papa, l’indagato Presidente IOR Tedeschi ha affermato, nel corso dei lavori di Reggio Calabria: "Se il Papa fa questa dichiarazione vuole che noi non ottemperiamo?… Ritengo che, soprattutto nel mondo globale, dove ci sono flussi finanziari consistenti, l'esigenza di trasparenza sia indispensabile, tanto più per le istituzioni legate alla Santa Chiesa, per evitare che gli errori degli uomini possano intaccare la credibilità della Chiesa. Bisogna essere esemplari". Trasparenza, appunto. E poteri distruttivi. Egli ha evitato altre domande, né i giornalisti presenti hanno avuto l’attenzione di chiedere, e riferire ai cittadini, che lo Stato della Città del Vaticano, nato nel 1929 in seguito al noto Concordato, è un vero e proprio paradiso fiscale offshore, laddove lo IOR non rilascia nessuna ricevuta per le proprie operazioni bancarie; dove i clienti sono assolutamente anonimi ed identificati solo da un numero, tutti i passaggi di denaro avvengono tramite bonifici, non si accettano rogatorie internazionali, e (finora) la Santa Sede, ai cui soli vertici la movimentazione bancaria dello IOR è nota, non ha aderito agli accordi internazionali antiriciclaggio.
In altre parole, mentre ove ciascuno di noi, recandosi semplicemente in un qualunque ufficio postale o bancario per un bonifico o per un prelievo, deve esibire fior di documenti estremamente dettagliati, in ottemperanza alla normativa in vigore in Italia per il controllo del flusso del denaro, la Santa Sede, pari a taluni stati del centro America che sono a tutti gli effetti dei paradisi fiscali offshore (nonché inclusi nella cosiddetta black list del Fondo Monetario Internazionale, ossia non offrono nessuna informazione in merito ai capitali che custodiscono ed ai proprietari di questi), se ne infischia di codeste norme. Almeno sino a quest’anno: il Cardinal Segretario di Stato Bertone ha infatti recentemente dichiarato che il Vaticano aderirà, entro il 2010, alle normative internazionali in materia di controllo dei flussi finanziarii. Parrebbe quindi, dal punto di vista degli alti prelati, tutto chiarito; e giungerebbero opportune, anche se –dati i frangenti- interessate e diremmo tardive, le affermazioni pur dense di oscuri presagi, del Santo Padre (il quale in tale occasione non parla ex cathedra, quindi non gode del dogma dell’infallibilità, come sancito dal Concilio Vaticano II, che lo limita solo a materie afferenti la fede), se si evitasse di tener conto della rete finanziaria intessuta dallo IOR, in questi ultimi trent’anni, nel mondo.
Non si vuole qui assolutamente polemizzare con i passati vertici della banca detta ‘di Dio’, con la fama che alcuni definiscono trista del fu Arcivescovo Marcinkus: persona invece astuta ed abile come pochi, ed a cui l’odierna finanza vaticana deve molto di più di quanto non sia disposta a riconoscere. Neppure si intende stilare una filippica contro i cosiddetti stati offshore: la cui legislazione è perfettamente lecita, ed i cui capitali, appunto, anonimi, sono la ricchezza di quelle isole di sogno, di quelle nazioni altrimenti destinate all’isolamento. Anzi, crediamo che tutto codesto accanirsi dei vertici finanziarii internazionali contro i detti paradisi fiscali, non sia affatto dettato da motivazioni di carattere etico, bensì da bramosìa di rastrellare quanto più denaro possibile, poiché si sa che la strada per Tipperary, citando una vecchia canzone di guerra inglese, ovvero la crisi economica, è ancora molto lunga e la fine di essa appare lontana.
Ma il Santo Padre dovrebbe, lo affermiamo col massimo rispetto pel trono di Pietro, con alta devozione per il messaggio dell’Apostolo e fidenti nella Luce della Trinità intramontabile, ponderare meglio le parole. Lo IOR ha, come è noto da indagini nazionali ed internazionali, innumerevoli banche consociate e partecipate (il celebre caso dell’Ambrosiano del povero Calvi fu il più eclatante, certamente non l’unico) che effettuano movimentazioni di enormi quantità di denaro, il cui tracciamento è pressoché impossibile. Mentre l’Opus Dei, ossia la potentissima organizzazione che per volontà del fu Papa polacco, ha preso la gestione dello IOR dopo le note vicende degli anni Ottanta (ed a cui appartengono i suoi vertici, da Gotti Tedeschi in giù), non si perita neppure di celare la propria longa manus, in tale settore. Che molti uomini dell’Obra fondata da Sant’Escrivà de Balaguer siano inseriti nei gangli vitali del potere politico ed economico italiano, è notizia arcinota: e non riteniamo la si possa criticare né eccepire. Pure, una sorda lotta tra quella che lustri fa era appellata la finanza laica contro quella bianca, o religiosa, ha portato (a nostro avviso con una certa correttezza) la Commissione finanziaria della Comunità Europea a sanzionare l’Italia per aver concesso l’esenzione dell’ICI agli immobili di proprietà della Chiesa, interpretandosi ciò come aiuto di Stato quindi violando le normative comunitarie. Se il Vaticano, che è attualmente esente, dovrà pagare allo Stato laico italiano le tasse sui numerosissimi immobili che possiede in Italia, sarà un inferocirsi di guerre sotterranee: ma le casse pubbliche ne avranno sollievo e giovamento. Sempreché codesta manovra, parte di un ben più grande disegno laddove si inseriscono le parole sui "capitali anonimi" di Benedetto XVI, giunga al fine e non venga bloccata, stroncata o silenziata da altri, e più clamorosi avvenimenti.
Cosa può dedurre da tutti codesti felpati movimenti, nelle alte sfere e nelle ovattate sale del rabescato potere, il cittadino laico, il cristiano comune, il libero pensatore? Se riprende, come quotidianamente dovrebbe, in mano il Libro Sacro, legge:"Non accumulatevi tesori sulla terra, dove il tarlo e la ruggine logorano e i ladri scassinano e rubano. Accumulatevi invece tesori nel cielo, dove né il tarlo né la ruggine logorano e i ladri non scassinano né rubano. Infatti, là dov’è il tuo tesoro, ivi è pure il tuo cuore" (Mt.6, 19-21); "Figli miei, quanto è difficile per quelli che confidano nelle ricchezze, entrare nel regno di Dio" (Mc. 10, 24). Pensa poi all’immenso potere della banca vaticana, lo IOR, gestita dall’Opus Dei, alla opacità tenebrosa delle sue operazioni, alla enorme differenza di queste dalle normali movimentazioni che il cittadino italiano affronta quotidianamente; infine alle suddette affermazioni del Pontefice. E può solo confidare nella misericordia del Supremo Artefice, nella vergine purezza della Grande Madre, la cui semplicità di vita salva ogni dì il mondo, travisato da coloro che tradirono, dopo aver giurato: anche essi avranno, come è stabilito, la loro ricompensa.


Bar.Sea.


(pubblicato su Sicilia Sera n° 334 del 5 dicembre 2010)

Assolto il Principe Vittorio Emanuele di Savoia


L’inutile fango del "savoiagate" nel 2006


Assolto il Principe Vittorio Emanuele, la verità trionfa


"Il fatto non sussiste": così l’erede al trono ed i cinque accusati vedono cadere la melma di
vergognose accuse formulate dal pm potentino Woodcock – La Russa: riposino al Pantheon le salme degli ultimi due Re di Casa Savoia -

Estate del 2006: nella canicola come sovente vuota di notizie, soprattutto nell’anniversario dei sessant’anni dalla proclamazione della Repubblica , nonché del (falso, come dimostrano gli atti e la storia) referendum che sancì la fine della monarchia e della casa regnante di Savoja in Italia, scoppia come una bufera inaspettata quello che la pubblicistica, invero a volte degna delle peggiori specie del regno animale invertebrato, definisce il ‘savoiagate’: accusato di corruzione, gioco d’azzardo e sfruttamento della prostituzione il Principe di Napoli (ed erede al trono) Vittorio Emanuele, quasi settantenne, capo della Real Casa, viene arrestato e tradotto come un volgare delinquente a Potenza, ove sconta sette giorni di carcere, dopo a Roma diversi mesi di arresti domiciliari. L’inchiesta è avviata dal PM Henry J.Woodcock, già noto alle cronache giudiziarie per similari casi di indagini cosiddette eccellenti: con il Principe del sangue, vengono arrestati cinque persone, a vario titolo coinvolte nell’inchiesta, di cui tre siciliani: l’imprenditore messinese Rocco Migliardi, Nunzio Laganà, Ugo Bonazza, Gian Nicolino Narducci e Achille De Luca di Catania. Le ipotesi di reato, le insinuazioni, le malefatte inventate, la cattiveria anche da parte di taluni del cosiddetto ‘vecchio mondo monarchico’, sono in quelle settimane all’ordine del giorno. Persino Emanuele Filiberto, figlio del Principe, ora star della TV, viene brevemente coinvolto nell’inchiesta. La quale però va evaporando dopo qualche tempo, e nel 2009 gli atti si spostano per competenza al Tribunale di Roma. L’accusa, lo si rammenterà, era di associazione a delinquere per aver trafficato in slot machine in cointeressamento con gli altri allora imputati, a fini di lucro ed altre trame oscure. Ricordiamo altresì che in quell’occasione, sia nei siti Internet che sui giornali si rispolveravano le vecchie, ed inconsistenti, accuse al Principe di collusioni con poteri segreti, di traffici illeciti: insomma, nell’anno in cui sarebbe stato doveroso, per storici studiosi e divulgatori verso il cittadino del XXI secolo, come è già accaduto in altre Nazioni, dispiegare con dovizia di particolari la scaturigine della nascita della Repubblica dal vero e proprio colpo di Stato dell’allora Presidente del Consiglio De Gasperi, a danno di Re Umberto II e della Casa regnante, e come questi per evitare il già preventivato spargimento di sangue fraterno, abbia volontariamente e con clamorosa protesta scelto la via dell’esilio da Sovrano in carica legale, si dava la stura al pozzo melmoso delle fantasie del tutto inventate, a carico dell’erede legittimo di Casa Savoja.
Che codeste accuse fossero inventate, lo ha finalmente stabilito, come molti nel mondo monarchico non hanno mai dubitato, il 22 settembre di quest’anno il gup del Tribunale di Roma, assolvendo definitivamente l’Altezza Reale il Principe Vittorio Emanuele di Savoia (il quale, come si ricorderà, in virtù della riforma costituzionale del 2002, è da allora anche cittadino italiano dopo anni di esilio ingiusto), nonché i sopraddetti signori Rocco Migliardi, Nunzio Laganà, Ugo Bonazza, Gian Nicolino Narducci e Achille De Luca, dalle accuse all’epoca formulate, "poiché i fatti non sussistono". E’ evidente la discrepanza fra la notizia dell’assoluzione, che non ha avuto quasi nessuna rilevanza tra i mezzi di comunicazione, e le accuse ed il carcere, amplificati al solo fine di distruggere, con l’immagine personale del Principe, sinanco quella dell’intera casa Savoja. E però la Storia, checché ne dicano i maligni ed i nemici della Patria, non si può mai cancellare, ed il tempo è ottimo giudice. E ristabilisce la Luce, mentre per tratti può sembrare che imperino le tenebre.
Il Principe, sempre confortato dall’amore della consorte Principessa Marina Doria, nota per le numerose opere benefiche che patrocina, ha così commentato, in una recente intervista ad Oggi, mentre da Bergamo inaugura un ‘giro’ in varie località italiane per l’anniversario dell’Unità: "È come se mi fossi svegliato da un incubo. Mi do un pizzicotto e capisco che non c’era nulla di vero. È una sensazione stupenda… come in un brutto sogno mi sentivo impotente, vittima di un ingranaggio più grande di me. Le accuse erano talmente assurde che non sapevo come difendermi…Credetemi, in tutta questa inchiesta non c’era un solo elemento di concretezza che mi permettesse di replicare, reagire, ribattere. Era tutto sfuggente, inafferrabile. Era come lottare contro gli spettri. Una cosa tremenda…È tutto finito. E proprio come capita con gli incubi, una volta sveglio cerchi di ricostruirli. Lo fai con un animo disteso, più sereno. Di una vicenda drammatica riesci a ricordare anche gli aspetti più belli, più divertenti e paradossali… È il tempo che mette a posto le cose. Mi avevano coperto di vergogna. Adesso quella vergogna è finita addosso a loro" . Della sua vicenda e del magistrato che lo ha letteralmente perseguitato afferma: "Fino a qualche giorno fa nutrivo un certo rancore per chi ha fatto soffrire me e la mia famiglia. Oggi per quella persona provo pietà…Woodcock, John Henry Woodcock. In questi anni 210 persone da lui inquisite sono state assolte perché contro di loro non c’era niente, niente di niente. Al processo, prima ancora della difesa, il primo a chiedere la mia assoluzione è stato il pm, la pubblica accusa": Della sua vicenda intende fare un esempio perché più non accada a nessuno il dramma personale vissuto:"Capita un po’ troppo spesso. Non è normale costruire processi come il mio, con accuse a vanvera, fondate sul nulla…Nel nome della legge in questo Paese vengono commesse colossali ingiustizie. Non si può sbattere la gente in galera così, sulla base di un teorema. Ci vogliono le prove. Ecco, io vorrei che il mio caso offrisse lo spunto per cambiare. Penso al bene dei cittadini. Ma anche al bene di questo magistrato, che non va lasciato nelle condizioni di commettere altri errori. Perché alla fine ad andare di mezzo sarà lui. Un giornale lo ha definito il pm delle cause perse. Terribile". E per sé il Principe chiede, come farebbe qualunque cittadino, i danni allo Stato (che a parer nostro, effettuando la tanto sospirata riforma della giustizia, dovrebbe pagare di tasca propria il magistrato che ha sbagliato, ossia non solo ha commesso un crimine etico inquisendo degli innocenti, ma ha provocato aggravi finanziarii alle casse statali!): ma è una richiesta da gran signore, da rappresentante di quel casato che è il più antico della penisola, che vanta mille anni di storia da Umberto Biancamano: "Mi accontenterei di vedere le salme dei miei genitori rientrare in Italia, nel posto che spetta loro, al Pantheon".
Re Umberto e la Regina Maria Josè, della casa di Sassonia Coburgo, avrebbero senza alcun dubbio il diritto di tornare nel sacrario italico dei nostri Re unitari. Il Principe, con tatto, non aggiunge, ma è nostro intendimento ribadirlo, come più volte da queste colonne e da altre platee, che tornino al Pantheon primariamente le spoglie del Re Soldato Vittorio Emanuele III, il vincitore della grande Guerra (sepolto ad Alessandria d’Egitto), e della Regina della Carità, Elena del Montenegro Petrovich Niegos (sepolta a Montpellier in Francia), a cui si deve esser grati imperituramente per le opere benefiche intraprese (noi siciliani sempre rammentiamo le attività indefesse a pro dei terremotati di Messina del 1908); persino l’attuale Repubblica Italiana le ha dedicato un francobollo commemorativo. Solo in questo modo, i centocinquant’anni dell’Unità nazionale che furono la gloria indiscutibile della Casa sabauda, potranno essere celebrati e conchiusi con degnazione e sovranità. Come del resto è accaduto in Nazioni anche non proprio democraticissime (la Russia ha onorato le salme dello Czar e di tutta la famiglia reale, ad esempio). Nei giorni scorsi il Ministro della Difesa Ignazio La Russa ha ufficialmente dichiarato che è necessario, pur per "un atto di pietà", chiudere le celebrazioni centocinquantenarie dell’Unità riportando al Pantheon le salme degli ultimi due Re d’Italia e delle loro consorti: azione assolutamente lodevole e meritevole del più ampio plauso, che a questo punto attendiamo a breve.
"E tu, Vittorio, abbraccia \ l’italica bandiera; il serto scaglia \ oltre il Po, nel terren della battaglia… a quel suon, di novelli \ fremiti il ciel d’Italia ecco rintrona; \ come nube che tuona \ e nel rovente folgore scoscende, \ lungo clamor da l’alpi al mar si stende": che tali versi del Vate Carducci, pel Re Galantuomo il quale suggellò nel 1861 la Patria comune sotto il suo scettro, possano essere di luminoso auspicio per le sòrti invero or tristi della nostra santa madre, l’Italia; che il clamore della bianca croce, illuminata dall’azzurro e dall’oro della Stella pentalfica, come nella verità han fugato le brutture nella vicenda anzidetta, tornino a proteggere i figli, specie i più bisognosi, e la casa comune, protetta dal glorioso tricolore.


Bar.Sea.


(pubblicato su Sicilia Sera n° 334 del 5 dicembre 2010)

giovedì 11 novembre 2010

Carboneria, setta eretica e baluardo della Libertà


Intorno ad una importante società segreta


Carboneria setta eretica e baluardo di Libertà


Nel primo Ottocento molti patrioti vi aderirono, e diversi moti insurrezionali, anche in
Sicilia, furono dall’associazione ispirati – Verga e i Carbonari -

Tra il fiorire delle idealità che fecero seguito alla Restaurazione dei governi, dopo la caduta della stella napoleonica nel 1815, vi fu certamente il sorgere di società segrete le quali, segnatamente in Italia martoriata dalla occupazione dell’Austria la quale era in quegli anni la dominatrice dell’Europa, cercavano di sovvertire il giogo dello straniero, educando le classi sociali alla idea di Libertà ed autodeterminazione, i cui semi erano stati gettati dalle armate del grande Còrso. Vero è che tali gruppi occulti erano limitati a coloro che erano agevolati nella istruzione ed aventi sensibilità etica: nondimeno, la storiografia post risorgimentale ha accertato che questi han fornito importante contributo, per il trentennio che va dalla caduta del Murat ai moti del 1848, all’idea di indipendenza di quella che sarà la Patria italiana: con evidenti sfumature di carattere autonomistico e, per ciò che concerne la Sicilia in particolare, indipendentistico. La società segreta più importante di quegli anni, come è noto, è stata la cosiddetta Carboneria.
Mentre anche gli studiosi di parte frammassonica, han da tempo verificato ed accertato, pur nella similitudine dei rituali e di un certo compiuto stile di affiliazione, la diversità sostanziale fra la Massoneria –la quale rimaneva anzi assente, come organizzazione, nei fatti insurrezionali di quegli anni-, come varii studiosi indipendenti e magari avversi ai settarismi, non han mancato di precisare ("è da escludersi la tesi massonica che le sètte, pullulanti in Italia dopo il 1815, siano derivazioni o mascheramenti o economia della Massoneria. Poco conta che dei massoni affluirono tra i carbonari, e fra le due sètte vi siano rassomiglianze rituali… Lo spirito religioso e nazionale della Carboneria non quadra con l’internazionalismo e l’irreligiosità sostanziale della Massoneria", scrive A.Omodeo in Difesa del Risorgimento, Torino 1951), è assai probabile la nascita della Carboneria nel meridione d’Italia durante il periodo murattiano: "La Carboneria… fu un prodotto del tutto italiano e di natura contingente… ebbe contatti non con la Massoneria, ma coi singoli Massoni che ad essa si affiliarono, malcontenti della inattività in cui languivano le logge, ed ebbe invece con la Massoneria aspri contrasti soprattutto per i metodi di azione ripugnanti allo spirito ed alla tradizione massonica" (V.Francia, Il mito dell’empietà, Napoli 1946). Codesta diversità, come il fatto che la Massoneria in Italia, ma anche in Francia dopo la restaurazione, fosse svanita operativamente, è attestata dagli informatissimi rapporti della onnipresente Polizia austriaca, i cui importanti documenti così precisano: "… la vecchia setta dei Franco Muratori erasi già disciolta –intorno al 1817\18- e nuove società segrete s’andavano costituendo in Italia, fra le quali la più estesa era quella dei Carbonari" (Carte segrete ed atti della Polizia austriaca in Italia, Capolago 1851).
Per tratteggiare anche brevemente un quadro della idealità carbonara, si può affermare che l’associazione ebbe finalità nettamente politiche e velleità indipendentistiche dei popoli contro "i tiranni", da cui il gergo noto "purgare la foresta dai lupi", ed ostentò attaccamento filiale alla religione Cattolica, includendo i simbolismi della Croce, della corona di spine, ed altri nel proprio immaginario: e se Gesù Cristo era il primo Carbonaro dell’Universo, il Santo protettore della Carboneria era San Teobaldo, un nobile eremita che per puro misticismo nel secolo XI si fece legnajolo. Da qui tutte le derivazioni esoteriche della simbologia forestale, naturistica, la cosiddetta mistica del legno. Era una setta ben importante, se si considerano le affiliazioni: da Silvio Pellico (il quale pure non fu Massone, ma esclusivamente carbonaro), che la rese familiare anche nella vulgata post risorgimentale, con il libro-denuncia a moltissimi noto, "Le mie Prigioni", lettura esaltante e commovente ov’egli stigmatizza con la serenità tollerante dell’Adepto superiore, il fanatismo e la violenza feroce della repressione del governo oscurantista Austriaco (si può anzi definire tale libro il manifesto politico della Carboneria), al conte Federico Confalonieri (questi adepto della Massoneria regolare inglese, a cui affiliassi a Cambridge); dal Santarosa infelice artefice dei moti piemontesi del ’21 ai tenenti Morelli e Silvati e l’abate Minichini che imposero a Re Ferdinando la Costituzione spagnola, poi subito tradita. In Sicilia furono carbonari di ispirazione i moti che ebbero epicentro in Catania nel 1837, e propugnacolo di indipendentismo della Sicilia, così carbonari furono molti dei fucilati, dal Barbagallo Pittà al Pensabene, in seguito alla feroce repressione del Luogotenente borbonico Del Carretto. Persino Mazzini pare fosse passato attraverso la filiazione carbonara, prima di maturare la strategìa che lo trasporterà ad individuare, egli maestro di complotti e di congiure, nella struttura organizzativa da lui ideata, la Giovine Italia –che sarà pertanto della Carboneria antagonista feroce- il mezzo, quasi sempre inefficace nella pratica ma di notevole idealità, per scardinare il connubio allora esecrato fra Trono ed Altare.
La Chiesa si avvide subito del pericolo,e condannava la Carboneria come setta eretica con la enciclica "Ecclesiam a Jesu Chisto" il 13 settembre 1821: Pio VII scomunicando senza appello i Carbonari ed i fiancheggiatori loro, dopo aver ammesso che la setta "si vanti di esigere dai suoi seguaci che mantengano ed esercitino la carità ed ogni genere di virtù, e con la massima diligenza si astengano da ogni vizio", li accusa "di profanare e deturpare con certe loro sacrileghe cerimonie la Passione di Gesù Cristo, di farsi scherno degli stessi misteri della religione cattolica… di volere rovesciare la Sede Apostolica". Moltissimi sacerdoti erano affiliati, come Roma ben sapeva, alle "Vendite", ossia assemblee, carbonare, e, come ben scrive l’insigne studioso e sacerdote paolino R.Esposito nei suoi studii, "terminavano nelle Baracche le prediche iniziate nelle Chiese", ovvero era per loro consequenziale il messaggio di Libertà diramato dalla Carboneria, rendendosi ben conto del fanatismo abietto dell’allora potere costituito e laico ed ecclesiastico. Terribile è purtanto la dichiarazione della Penitenzieria Apostolica del novembre 1821, seguente "alcuni dubbi insorti" circa la bolla di scomunica, sollevati dalla Curia di Napoli: la Santa Sede autorizza, ad esplicita dimanda "se il figlio debba denunziare il padre, il fratello, la sorella", che "stabilito una volta che sia una Sertta eretica, il figlio è tenuto a denunziare il padre, ecc, il tutto però con gran prudenza e segretezza". L’ultima precisazione è quantomeno repellente: per fortuna anche la Chiesa ha riconosciuto in questo campo le sue colpe ed è rifiorita alla nuova primavera, come è stato notato: nella dichiarazione conciliare "Dignitatis humanae" del 1965 si esprime "un solennissimo ed esplicito mea culpa a proposito delle deviazioni commesse dal Popolo di Dio, la Chiesa, nei confronti della libertà di coscienza" (cfr.Esposito). E se finora la Chiesa, come è stato per la Massoneria, non ha implicitamente ‘revocato’ la scomunica ai Carbonari che esistono, in forme rinnovellate ma secondo la Tradizione, anche nel XXI secolo- , ciò sia sufficiente a tacere ogni eventuale polemica.
Il ventunenne Giovanni Verga da Catania (e Vizzini), il cui nonno era Carbonaro, stampava –a sue spese- nel 1861 ad Italia appena unificata dai gloriosi borghesi in camicia rossa di Garibaldi (il quale, simbolo della Massoneria italiana dell’Ottocento, venne elevato al grado di Maestro massone solo nel 1860, conquistata Palermo, a ben 53 anni… la precisazione è data per rendere l’idea di quanto la Massoneria, pur idealmente similare, era nella struttura e negli uomini lontana dalla Carboneria italiana) presso Crescenzio Galatola, il romanzo "I Carbonari della Montagna", il secondo suo e primo di un luminoso successo letterario. Questo libro è, con quello del Pellico, il manifesto letterario della Carboneria storica. E’ altresì importante poiché, seppure sotto le vesti della finzione scenica, chiarisce quel che poi la storiografìa preciserà (mai del tutto bene, a nostro parere), ossia la filiazione precipuamente inglese dei finanziamenti, e della ideazione quindi delle Vendite carbonare, durante il periodo della presenza inglese in Sicilia da parte di Lord W.Bentinck, l’autentico artefice e creatore della Carboneria meridionale anglo-calabro-meridionale, la cui figura ebbe ampio respiro pur nei tre anni del suo governo dell’Isola. Tale politica, in funzione naturalmente antifrancese, sarà continuata dall’Ammiraglio Sidney Smith, comandante in capo della Flotta Britannica nel Mediterraneo (e autorevole Frammassone): per cui se vi fu una filiazione Massoneria-Carboneria essa deve eventualmente ricercarsi oltreoceano, nelle brume londinesi e negli archivi di quella United Grand Lodge of England la quale, anche per impulso dello Smith, erasi riunificata, gli Ancient coi Moderns, con il noto ‘Act of Union’ del 1813, vera data di nascita della Massoneria moderna dalla ‘casa madre’ britannica.
"Mio Buon Cugino, di dove venite? –Dalla Foresta. –Che cosa ci arrecate? –Salute, Amicizia e Fratellanza. –Chi è vostro Padre? –(il Buon Cugino volge gli occhi al cielo) –Chi è vostra Madre? (il Buon Cugino guarda la Terra)". Questo stralcio da un rituale carbonaro, dona l’idea del misticismo preciso e diremmo pànico, naturistico della società carbonica, in linea del resto con tutte le confraternite iniziatiche del mondo antico, e di quello moderno. L’auspicio finale è che, come "quella croce dovea risplendere come l’occhio di Dio" (finale dei Carbonari della Montagna) nell’ideale della Carboneria, così il comune intendimento dei molti, già acclarato dalla storiografia, legga l’esperienza dei Carbonari dell’Ottocento come un sublime anelito, e spirito sempre rinnovato, di Indipendenza e di Libertà, dei popoli ma soprattutto dei cuori.

Barone di Sealand (Francesco Giordano)



Nella foto, grembiule del Rito Carbonaro, appartenuto a Ciro Menotti


(Pubblicato su Sicilia Sera n°333 del 3 novembre 2010)

venerdì 15 ottobre 2010

Garibaldi l'onesto, nelle commemorazioni per l'Unità italiana




Sulle ultimi analisi della storiografia dell’Eroe

Garibaldi l’onesto, dall’inizio alla fine dell’impresa dei Mille

Prevale oggi una lettura critica dell’eroica azione che unificò l’Italia, ma nessuno può
mettere in dubbio la rettitudine etica dell’uomo – Soli premi, delle sementi e del caffè -

In questi mesi ferve sulla stampa e nelle commemorazioni ufficiali, occasione il centocinquantenario dell’Unità d’Italia, una rilettura dell’impresa dei Mille, che è alquanto diversa dalla vulgata ufficiale, in vigore sino a circa un ventennio or sono. Ovvero, si discetta –anche a livello accademico, e ciò appare senza dubbio un bene per la storiografia- delle circostanze, molte poco chiare, entro cui si svolse la magnifica azione, che ad opera dell’eroe (mai appellativo fu più meritato) Giuseppe Garibaldi, componeva finalmente il dilacerato quadro geografico della Nazione, nella –ideale più che reale: ma era l’azione suprema, compiuta- compagine italiana. Opera degna di stare nelle più fulgide pagine della storia: opera che è inevitabile si presti ad una sana retorica: infatti sia da una parte, quella dei laudatores, che dall’altra de’ denigratori, essa fiocca inesorabile. La più gran parte dei documenti altresì della spedizione garibaldina, partita da Quarto di Genova il medesimo giorno anniversario dell’ascesa al cielo del titano Napoleone, nell’anno 1860, sono stati in questi anni pubblicati dagli studiosi: e se ve ne fosse ancor bisogno, è luogo di aggiungere che, in ogni capitolo delle umane azioni specie le più importanti, vi sono paragrafi che debbono necessariamente rimanere muti negli scritti, eloquentissimi nelle azioni.
Qui crediamo di far utile esercizio di memoria, a benefizio del lettore, nel rammentare, ove il frangente si presta senza alcun dubbio alla rimembranza, la figura assoluta, in ogni senso, di Garibaldi, quale uomo perfettamente onesto. E’ egli forse il condottiero d’Europa sul quale moltissime biografie, dei più diversi storici, sono state scritte: pure, da avversi orizzonti, tutte convergono su un inequivocabile punto, vertice ideale di un triangolo: la Rettitudine adamantina del personaggio, che ebbe alla base due obiettivi, la Patria e l’Umanità. Non sarebbe stato per la sua visione umana possibile raggiungerne ambo le sponde, se egli non fosse stato animato, sin dalla giovinezza corsara (si rammenti che perviene in Sicilia, quale comandante di un gruppo di “filibustieri borghesi” in camicia rossa, a cinquantatré anni, temprato da multiformi battaglie e dolori umani e sociali) da codesta diana, luminosa per un asilante della Virtù come lui, ossia l’onestà di principi, la semplicità dei costumi, una etica affatto laica e trasparente. Garibaldi ancora nel XXI secolo, per una certa visione che rifiuta anche la intelligente ricerca storica di parte clericale, passa per un anticristiano: mentre lo studioso attento sa che fu sì fortemente, ed a volte con inusitata ferocia, anticlericale, però mai anticristiano né anticattolico. La sua religiosità laica, del resto, egli la dimostra subito nell’accorrere, dopo le vittorie che hanno ancor oggi dell’incredibile, di Calatafimi nonché la resa della potente piazzaforte di Palermo, capitale della Sicilia, in Duomo ad assistere al festino di Santa Rosalìa, ed omaggiare la Santa più amata della Sicilia occidentale (quel che non avrebbero fatto né Bakunin, né certo Carlo Marx, il quale anzi alla venuta di Garibaldi in Inghilterra nel 1864, definì le cerimonie ed il protagonista una “manifestazione di imbecillità”). Sconcertando alcuni, del resto, la documentazione coeva (dal “Malta Times” ai carteggi privati) riferiscono subito che alla testa dei Mille vi si notano immediatamente “parecchi monaci francescani colla croce in una mano e la spada nell’altra”. Uno di costoro, che diverrà noto, fra’ Giovanni Pantaleo, ebbe l’abitufine, per lui usuale, di celebrar ogni giorno Messa nei campi dei garibaldini, del resto miscela eterogenea di miscredenti e cattolici devoti, uomini del dubbio e pencolanti verso il deismo, colorati sopra tutto nel vestire.
La quaestio che si agita ora è quella sollevata già negli anni trascorsi, dalla ricerca sotterranea: ebbe l’impresa dei giovini volontari in camicia rossa l’appoggio, la connivenza, addirittura la sua strutturazione priméva, nelle sale del Foreing Office di Sua Maestà Britannica, nazione a cui si sapeva il Generale essere particolarmente legato e che visitava negli anni cinquanta del XIX secolo?
A volte arrovellarsi in contorsionismi cartaceo-verbali appare inutile, laddove le risposte sono, come s’afferma, sotto lo sguardo di chi vuol vedere. Garibaldi medesimo, nelle note sue “Memorie”, lo scrive, a proposito dello sbarco dell’undici di maggio a Marsala, laddove due navi della flotta borbonica, si erano (stranamente?) allontanate poco prima dell’avvicinarsi del Piemonte e del Lombardo –tornano poco dopo, appena finito lo sbarco-, mentre due vapori da guerra inglesi, l’Argus e l’Intrepid, ancoravano nella rada marsalese: “La presenza dei due legni da guerra inglesi influì alquanto sulla determinazione dei comandanti dei legni nemici, naturalmente impazienti di fulminarci, e ciò diede tempo di ultimare lo sbarco nostro. La nobile bandiera di Albione contribuì, anche questa volta, a risparmiare lo spargimento di sangue umano; ed io, beniamino di codesti Signori degli Oceani, fui per la centesima volta il loro protetto”. Anche se subito dopo egli si affretta a precisare, poiché erano nate subito delle polemiche direttamente smentite dal gabinetto inglese, l’inesattezza “che gli inglesi avessero favorito lo sbarco in Marsala direttamente”, è innegabile che l’excusatio non petita dell’ingenuo –ed in ciò riposa la caratura della sua sincerità, della sua schiettezza che gli fece l’anno dipoi gridare in faccia a Cavour, probabilmente provocandone involontariamente la crisi cardiaca e pochissimo dopo la morte, di aver generato una “guerra fratricida”- generale, depone a chiarificazione di molti avvenimenti, i quali non per questo si spogliano della loro avventurosa genialità, del loro coraggio invidiabile. Scrivano pure alcuni che l’oro di Londra, le mene –tutte da provare, ma che non si possono stabilire- della Massoneria corruppero i generali borbonici, segnatamente il Lanza, nel permettere le vittorie dei garibaldini: dai rapporti coevi, pubblicati dagli storici, nessuno può mettere minimamente in dubbio che la pugna del cosiddetto ‘pianto dei Romani’ nelle terrazze digradanti della piana di Calatafimi, vide “i Mille vestiti in borghese, degni rappresentanti del popolo”, che “assaltavano con eroico sangue freddo di posizione in posizione, i soldati della tirannide, brillanti di galloni, di spalline, e li fugavano! .. i pochi ‘filibustieri’ senza galloni e dorature, di cui si parlava con solenne disprezzo, avevano sbaragliato più migliaia delle migliori truppe del Borbone, con artiglieria e tutto il resto… un corpo di borghesi, ancorché filibustieri, animati da amor di patria, possono dunque vincere anch’essi, senza bisogno di tante dorature”. Così la prosa di Garibaldi, nelle Memorie. I soldati del Regno delle Due Sicilie, risulta si batterono con valore: ma non si attendevano, da una accozzaglia di civili, ben dieci assalti consecutivi alla bajonetta (scrive il coevo il Malta Times).
Il mito era nato, e rimane indelebile. Tutto il seguente, dalla celebre frase di Garibaldi a Bixio, al popolo che lo vedeva come un secondo Messìa, dagli Argonauti alla cerca del vello d’oro alla giubba di Tancredi di Salina, è leggenda o letteratura degli ultimi cento e più anni: bellissime narrazioni, necessarie anzi a forgiare l’animo romantico del popolo e cullare gli ozi dei dotti, ma sempre narrazioni. Il sangue versato tra italiani invece rese triste sempre Garibaldi, che scelse ognora la strada del compromesso, ove possibile, al fine di evitare lo scontro tra popoli che egli inequivocabilmente considerava fratelli e figli della medesima Madre comune, l’Italia. Chi poté e poteva dubitare della sincerità del suo alto ideale?
L’impresa si compie in autunno, con l’incontro –anche questo idealizzato non poco- di Teano, l’ingresso delle truppe piemontesi, l’annessione al costituendo Regno d’Italia. Non era Garibaldi medesimo che, egli fiero repubblicano e costruttore nel Rio Grande della Repubblica del Sud della Plata, poi difensore di Montevideo dalle mire del tiranno brasiliano Rosas (il quale gli offrì in quegli anni di divenire ricchissimo e capo della flotta navale del Brasile: altri avrebbe accettato, ieri come oggi, non Garibaldi che incedeva col ‘poncho’ il quale, rapportano gli incaricati d’affari britannici a Montevideo, indossava onde nascondere il vestito lacero, perché non aveva denaro per acquistarne altri…), aveva a Salemi assunto la Dittatura di Sicilia “in nome di Vittorio Emanuele Re d’Italia”? Ed ora tornava privato cittadino, spoglio di onori che pure gli erano stati offerti, e sdegnosamente rifiutati, poiché era in ogni caso un incorruttibile (solo chiese, e non ottenne, dai politicanti del governo che i garibaldini fossero immessi nell’esercito regolare), nell’isola di Caprera, che aveva scelto come rifugio, come vetta d’aquila ove riposare, ma per poco, le stanche membra. Vi fu anche della posa, ma prevalse la sincerità e lo sdegno, pure venato da un fidente sorriso (fiducia che l’anno dopo sarebbe caduta col projettile scoccato da italico fucile, su l’erta di Aspromonte), la sera del 9 novembre 1860, allorché il generale s’imbarca sul vapore Washington, verso Caprera. Quando giunge, scrisse Giovanni Pascoli in una felice commemorazione, “è felice; sbarca la sua preda, il favoloso corsaro: un po’ di zucchero e di caffè, una balla di stoccafisso, un sacco di semente…” . In casa “non ci sono seggiole: ecco, gli ufficiali del Washington danno le loro, scrivendovi su, ognuno, il loro nome”. Questa la misura dell’uomo, “duce umano”, continua il Pascoli, “calmo e sorridente, immerso in una perenne immutevole serenità”. Un uomo di fede, di sentire religioso, molto distante dai confessionalismi che jeri come oggi imperversano ed a volte soffocano gli ideali di Libertà, e possono occultare con funesta tenebra, la Luce perenne. Ma egli con l’intemerato esempio di italiano onesto è sempre lì, nelle piazze, nelle vie, nelle strade e dovrebbe entrare vieppiù nei cuori dei giovani, insegnando con linguaggio che non può ripetersi, quale sia il sentiero da percorrere, verso l’infinito di un sogno che, alfine, si realizza.

Barone di Sealand

Pubblicato su Sicilia Sera n°332 del 5 ottobre 2010

In Romania riesumato Ceausescu: significato occulto?


Un capitolo di storia che ritorna dopo venti anni

Riesumato in Romania il cadavere di Ceausescu: quali significati?

Fu un leader amato dalle potenze occidentali, ancorché appartenente al blocco comunista, per le sue posizioni politicamente eterodosse – La crisi attuale romena e le scaturigini occulte -


Quando, una ventina di anni fa, andammo in un pomeriggio d’estate al cimitero ortodosso di Ploiesti, alla periferia nord di Bucarest, capitale della Romania, erasi spenta da pochissimo l’eco della “revoluzia”, ovvero la rivolta popolare che portò alla caduta del regime comunista dopo quarantasei anni, ed alla morte violenta del capo dello stato e del partito, il Presidente Nicolae Ceausescu e la moglie Elena, fucilati il 25 dicembre 1989 dopo un sommario, ed esitante, processo improvvisato. Eravamo lì anche per rendere omaggio a quei poveri resti che, si diceva, senza alcuna indicazione di nome, fossero sepolti: separati, a pochi metri di distanza l’uno dall’altra. Tutti ivi sapevano di chi si trattasse, fra le tombe dei cittadini comuni: pure, correva voce che ivi non fossero stati sepolti i veri coniugi Ceausescu, che governarono la Romania per ventiquattro anni, ma dei sosia, delle controfigure. Tornammo dopo un paio d’anni in quel cimitero: una piccola lapide celebrativa era stata messa a ricordo del defunto dittatore, per la moglie solo il nome inscritto in semplice legno.
Questa storia ci tornò ben chiara nella memoria, allorché nelle scorse settimane, precisamente il 21 luglio, i cadaveri, presunti, dei Ceausescu sono stati riesumati proprio dalle tombe da noi visitate, per ordine della Magistratura romena la quale sin dal 2004 aveva ricevuto la richiesta della figlia della coppia, Zoe, una matematica (oggi defunta: la causa è proseguita dal marito Mircea Opran), che desiderava accertare se davvero delle spoglie mortali dei genitori si tratti. Lo stabilirà in questi giorni il test del DNA, comparato evidentemente sui parenti superstiti (supponiamo dei nipoti; poiché l’altro figlio, Nicu, è anch’egli morto per cirrosi epatica, ed il terzo Valentin, è adottivo). L’avvenimento ha per un paio di giorni, come appare, fatto quasi ridestare, in modo allegorico, l’interesse su colui che in vita era definito il “Conducator” e “geniul din Carpazi”, vezzeggiato dalle cosiddette potenze occidentali e dai governi del patto atlantico nonché dagli stessi Stati Uniti molto ben accolto, poiché ‘ribelle’ sovente, pure facendo parte del blocco comunista e del patto di Varsavia, alle direttive di Mosca. Nicolae Ceausescu giunse alla guida della Romania nel 1965 dopo la morte di Gheorghe-Gheorghju Dej, un forte burocrate comunista ispirato da Stalin e poi da Kruscev; prima, la Romania liberata, meglio sarebbe dire occupata, nel 1944 dalle truppe dell’Armata Rossa, era sotto l’usbergo feroce di Ana Pauker, una funzionaria spietata dell’Internazionale Rossa, che non si peritò di mandare a morte i superstiti del precedente regime, fece esiliare il Re Michele (che ora è tornato a vivere in patria), e guidò il PC romeno, sino a che Stalin la fece ‘epurare’, per un governo più morbido, al cui vertice era un liberale formale come Petru Groza: ciò secondo gli accordi di Yalta fra Churchill, Stalin e Roosevelt.
Di Georghiu Dej Ceausescu era stato il massimo collaboratore: ma il breznevismo che proprio allora iniziava il suo corso nell’URSS, mentre ivi significò all’inizio innovazione per poi adagiarsi nell’irrigidimento della guerra fredda degli anni Settanta, per il nuovo capo dello Stato e del Partito romeno, ebbe valore di slancio pan-nazionalistico e vigore: durante il primo decennio si ebbe in Romania uno sviluppo del tenore di vita della popolazione, stato socialista quindi estremamente centralizzato, che persino le nostre fonti di occidente lodavano quale il migliore di tutte le nazioni del blocco comunista. Mentre Ceausescu in politica estera volle subito precisare il suo indipendentismo con rifiutarsi di partecipare alla invasione di Praga del 1968, stringeva accordi con le potenze occidentali (gli Stati Uniti diedero alla Romania la clausola di nazione privilegiata per il commercio, così la CEE), partecipava regolarmente alle Olimpiadi boicottate da Mosca (destò scalpore la presenza delle squadre romene a Los Angeles nel 1984), era ricevuto alla Casa Bianca da Nixon, Carter ed a Buckhingam palace dalla Regina Elisabetta, si era investito del patronato di amico degli stati centro africani (Mobutu era il migliore suo alleato nel continente nero); e mentre decideva di dedicarsi alla ricerca petrolchimica negli anni Settanta, il debito contratto con l’FMI avanzava. Questo non gli impediva di mantenere ottime relazioni diplomatiche con Israele (unico paese del blocco sovietico), e di rifiutarsi di condannarne le azioni (specie dopo le guerra del Kippur). Insomma, ad onta del ritratto che negli ultimi anni è passato alla vulgata storica, Nicolae Ceausescu fu un capo di stato comunista ‘buon amico’ dell’Occidente. Persino dall’Italia, il cui eurocomunismo berlingueriano egli sostenne, i suoi discorsi e le sue prose poetiche erano tradotte ed apprezzate. Con l’Italia poi la Romania, per via delle comuni origini linguistiche, ed in parte etniche, latine, ha avuto ed ha tuttora rapporti privilegiati. La sua tragedia fu di intestarsi a ripianare, cambiando la Costituzione con una clausola che impediva alla Romania di contrarre nuovo debito con l’estero (fu il primo articolo che il novissimo governo a lui succeduto, mutò nei primi giorni della cosiddetta “revoluzia”: il che getta non pochi sospetti sulla pianificazione di quello che fu, sostanzialmente, un colpo di stato), appunto i debiti finanziari contratti col Fondo Monetario Internazionale: per tutti gli anni Ottanta i romeni compirono sforzi enormi (ossia sacrifici immensi nel senso della mancanza a volte anche dei beni di prima necessità…) per ripagare le multinazionali finanziarie dell’Occidente, e proprio a fine estate del 1989 il debito era stato completamente rimesso. Non fu un caso che entro pochi mesi, in circostanze che vent’anni dopo emergono più chiaramente, egli venne assassinato ed il nuovo regime riaprì i cordoni del debito pubblico, con le conseguenze dell’oggi. Il 25 giugno scorso infatti vi è stato un assalto al palazzo presidenziale di Bucarest (lo stesso del noto ultimo discorso del 21 dicembre 1989 di Ceausescu, quello in cui venne artatamente fischiato da parte della folla) da parte di circa seicento persone, respinto con violenti scontri dalla polizia. I romeni chiedevano al presidente del Consiglio Emil Boc di sospendere le misure del governo che tagliano il 25% degli stipendi ed il 15% delle pensioni; si aggiunge la richiesta al Presidente della Repubblica Basescu, da poco rieletto, di non firmare la legge. Per queste ragioni il Fondo Monetario Internazionale ha chiesto l’approvazione della Corte Costituzionale romena prima di concedere l’ulteriore prestito. In questo frangente attuale, estremamente drammatico per la Romania (denunciato dal PRM, partito Romania Mare, ossia grande,il più numeroso tra le compagini dell’opposizione), si è svolta la ‘resurrezione virtuale’ di Nicolae Ceausescu. Quale il significato occulto, oltre il velo della forma ufficiale?
E’ oramai risaputo da molti, che i veri reggitori dei governi internazionali non son davvero coloro che vediamo nelle tv, ma uomini nascosti i quali mai si fanno notare, però reggenti le fila della grande finanza e della economia mondiale. Da molte inchieste coraggiose, si sa che questi si riuniscono in gruppi ‘di studio’ e lobby di potere, come il Bildeberg, la commissione Trilateral, il Council of Foreing Relations, e simili. Costoro sono legati, sovente, dal vincolo associazionistico e fraterno della Massoneria, la quale è una entità sopranazionale ed anche centro di coagulazione indispensabile per unire uomini ed idee altrimenti disperse ed opposte. Sulla filosofia massonica, nulla abbiamo da eccepire, a differenza dei seguaci di un certo cospirazionismo. Notiamo soltanto che, come da ambienti afferenti è noto, Nicolae Ceausescu (la moglie Elena probabilmente: tuttavia ella, donna poco istruita ma intelligentissima, fu l’autentica dominatrice dell’animo del marito, specie nell’ultimo quindicennio; ebbe pure cariche politiche, essendo primo Vice Presidente del Consiglio) era affiliato alla antica confraternita della Massoneria internazionale. Questo spiegò allora, e spiega meglio oggi, i suoi atti eterodossi dal punto di vista della politica estera. Comunista, meglio ancora socialista fervente, non ebbe esitazioni nel legare con Nixon ed il generale De Gaulle, pure essendo amico personale del Presidente della Germania est Erich Honecker (che morirà in esilio in Cile, nel Cile dell’anticomunista generale Pinochet, dopo la caduta e la dissoluzione della DDR: sia Pinochet che Honecker, come appare quasi certo, erano legati dal vincolo iniziatico del giuramento massonico); impose la partecipazione agli utili degli operai nelle fabbriche nazionali (lesse certamente i documenti corporativi della Repubblica Sociale Italiana: ma ebbe la possibilità di applicarli… pertanto era anche molto ben visto da ambienti italici ‘di destra’, per quanto ciò possa apparire incongruente…), e fu insignito da alte onorificenze dalla Regina d’Inghilterra (gli vennero revocate solo un giorno prima del suo assassinio: come se in alto loco si sapesse…). Pure la medesima scomparsa di colui che instaurò uno dei più sistematici culti della personalità di tutti i regimi comunisti, è avvolta dall’aura massonica: pare che poco prima della scarica mortale della fucileria, egli stesse cantando l’Internazionale: e non è codesto l’inno socialista dei lavoratori di tutto il mondo, le cui parole furono vergate da quel francese operaio, Eugene Pottier, notoriamente affiliato (come del resto Ho Chi Minh e, probabilmente, Deng Xiaoping) a quella che i massonofobi appellano la ‘setta del serpente verde’, ossia al Grande Oriente di Francia?
Infine, per chi vuol leggere (siamo oltremodo convinti che in ambienti di occultismo internazionale sia stata data una lettura similare) la ‘resurrezione’ del cadavere di Ceausescu e della moglie (se son davvero loro: rammentiamo che egli, come altri noti dittatori, ebbe tre o quattro sosia: uno in particolare, Andruza, era il fratello gemello: se si scoprirà che i cadaveri non son quelli autentici, sarà altro mistero nel mistero…) in chiave di numerologia esoterica, il 21 (giorno del dissotterramento), il sette (mese di luglio, e settimo mese dopo i vent’anni), e le cifre dell’anno, secondo gli Arcani maggiori (e le letture di Gebelin e Levi) intendono significare il mondo, guidato dal carro ben recintato, che va verso il giudizio, il quale è vicino, comunque orientato da Iside, la papessa, ed Osiride, il mago, attorniati dalla matta folla. Per quei che invece si dilettano di vampirismo (l’eroe nazionale romeno, Vlad Tepesc, cristiano combattente contro i turchi, ha avuto da Bram Stoker la jattura di essere assimilato al personaggio diu Dracula nell’omonimo romanzo ottocentesco: Ceausescu, che pare andasse a ‘rigenerarsi’ esotericamente nel castello di Vlad a Snagov, fu paragonato a Dracula; ma anche Bram Stoker era affiliato all’ordine riservato, e paramassonico, della Golden Dawn…), sia sufficiente la testimonianza di Gelu Voican, oggi ambasciatore romeno in Tunisia e componente del tribunale improvvisato che condannò a morte i Ceausescu, il quale ha dichiarato recentemente che, quella notte, si videro sparire e poi riapparire i sacchi contenenti i due cadaveri: c’era la luna piena. E cinque giorni dopo, nel seppellirli, il corpo dell’ex dittatore era caldo, come se dormisse.
A noi piace ricordare l’uomo, indubbiamente colpevole di molti misfatti ma anche molto meno criminoso di quanto se ne sia detto sinora, con un poema che egli scrisse negli anni settanta, parafrasando (non era ciò un caso, per un ateo comunista: il quale però permetteva il libero culto nelle chiese, dalle ortodosse alle cattoliche alle sinagoghe..) Isaia, 5,4: “Fateci trarre trattori da cannoni \ Dalle luci e sorgenti atomiche, \ Dai missili nucleari \ Aratri per lavorare i campi”. Se la società oggi applicasse codesti precetti, ancorché provenienti da un cosiddetto tiranno, molti mali sarebbero sanati. Scrisse Santa Teresa d’Avila: “Se Satana potesse amare”, e chi dice che non lo può, ci permettiamo di aggiungere, “smetterebbe di essere cattivo”.

Barone di Sealand


Pubblicato su Sicilia Sera n°332 del 5 ottobre 2010

lunedì 20 settembre 2010

Mostra e Seminario su Colera e rivoluzioni in Sicilia all'Archivio Storico Comunale di Catania, 25-26 settembre 2010




Nell'ambito delle Giornate Europee del Patrimonio 2010 "Italia tesoro d'Europa" a cui partecipa il Comune di Catania, l'Archivio Storico Comunale di Catania organizza una mostra ed un seminario su "Colera e Rivoluzioni in Sicilia: due sciagure dentro e fuori i monasteri nelle lettere dei Verga (1854-1866)".E' una laudevole iniziativa di cui è artefice primiera la Dott.ssa Marcella Minissale, direttrice dell'Archivio, affiancata dai solerti collaboratori. Con questi eventi la Luce intramontabile della Cultura splenderà sempre oscurando le tenebre dell'ignoranza.


Qui riportiamo la locandina dell'evento.


Relatori:Prof. Antonio Di Silvestro, della Facoltà di Lettere dell'Università di Catania, sul tema "Momenti e temi della religiosità della famiglia Verga"


Dott. Francesco Giordano, giornalista pubblicista studioso di storia patria, sul tema: "Aspetti politico sociali del colera del 1837"


Dott. Giovanni Verga, giornalista pubblicista, pronipote dello scrittore


Leggerà alcuni brani delle lettere in esposizione l'attrice Agata Tarso, della compagnia "Amici del Teatro" di Nicolosi.


Ulteriori informazioni sull'iniziativa possono essere ottenute al seguente indirizzo:www.comune.catania.it/informazioni/news/cultura/musei/archivio-storico/default.aspx?news=16097, ove è la scheda storico tecnica della mostra.

lunedì 2 agosto 2010

L'Etica tra la ragione e la religione


L’esempio deve praticarsi dall’alto


Tornare al giusto concetto di Etica nella ragione e nella religione


I frequenti appelli del Papa alla morale, interpretata dalla dottrina della Chiesa, non hanno
contraltare nel mondo secolarizzato – La parola luminosa del Voltaire e l’accordo fra i giusti -


Le ultime vicende di corruzione che imperversano attraverso la stampa, continuano a trasmettere il messaggio comune che, se la morale popolarmente intesa è in pieno decadimento, non sussiste neppure una autorità superiore che può farsi latrìce di una qualsivoglia interpretazione ed applicazione della medesima, mentre le supreme autorità statali, sin dalla concezione dell’idea pura di Nazione, hanno –specie negli ultimi decenni- affatto rinunziato ad ergersi quali garanti di una corretta applicazione dei cosiddetti principi etici. Per essere più precisi, formuliamo un esempio banale: ove un cittadino ritenga di patire ingiustizia, si rivolge con fiducia alla Magistratura, che è –massime in Italia, poiché, per chi non lo rammenti, è dalla Suprema Corte che deriva il medesimo riconoscimento dello stato repubblicano, nel giugno 1946, ben più pregnante dell’oramai discusso e storicamente falso referendum sulla forma del governo- la garante massima del Diritto. Il quale in certo senso si investe di cognizione etica. E però, le vite private di quella corporazione, tra le tante in Italia ma certo più possente, dei Magistrati, non possono essere oggetto di giudizio in virtù della riservatezza della vita privata. In altre parole, chi amministra giustizia e in certo senso, morale, non può essere oggetto di moral questione. Allor ci si volge alle religioni, che dell’Etica fanno il fulcro della loro azione, strettamente connessa all’insegnamento pedagogico:il Cattolicesimo romano in particolare, nostra fede predominante. Sono frequentissimi i richiami dell’attuale Santo Padre, forse più dei predecessori, per una applicazione stringente ed aderente ai valori cristiani e della dottrina sociale della Chiesa, di quel concetto che egli stesso, in una allocuzione il 22 maggio u.s., ha appellato "Ethos mondiale": "Senza il punto di riferimento rappresentato dal bene comune universale non si può dire che esista un vero ethos mondiale e la corrispettiva volontà di viverlo, con adeguate istituzioni. È allora decisivo che siano identificati quei beni a cui tutti i popoli debbono accedere in vista del loro compimento umano… Ciò che, però, è fondamentale e prioritario, in vista dello sviluppo dell’intera famiglia dei popoli, è l’adoperarsi per riconoscere la vera scala dei beni-valori. Solo grazie ad una corretta gerarchia dei beni umani è possibile comprendere quale tipo di sviluppo dev’essere promosso… Esso è dato specialmente dall’incremento di quelle scelte buone che sono possibili quando esista la nozione di un bene umano integrale, quando ci sia un telos, un fine, alla cui luce viene pensato e voluto lo sviluppo" (cfr. ai partecipanti del Convegno della Fondazione Centesimus annus). Benedetto XVI inoltre, da finissimo teologo, torna sovente sulla relazione fra tomismo, razionalità e fede (cfr. udienza del mercoledì 16 giugno u.s.); nel precisare la figura del sommo Aquinate, non ha taciuto il riferimento importante alla consociazione di etica e principii inderogabili, nel mondo moderno.
Insomma anche affrontando i noti scandali allignanti nel suo interno, la Chiesa attraverso il magistero petrino si sforza di fornire, a credenti e non credenti, una via non diremmo propriamente solo di salvezza, ma di comportamento specchiato.
Quel che scandalizza in una società fortemente secolarizzata è che il rapporto etico appare assolutamente deficitario, in coloro i quali fanno professione di libero pensiero, di superiorità di atteggiamenti, in un termine di spòcchia intellettuale. Tra codeste categorie, libertine ne’ costumi come nel linguaggio, sono preponderanti i politici della nostra Patria. E’ semplicemente vergognoso sentir ciarlare taluni (non si fanno qui nomi per non insozzare le pagine orgogliose del giornale…) in termini che in altri tempi si sarebbe detto da osterìa, come altri non applicare il precetto senechiano secondo cui ci si deve sempre comportare come se tutti ci osservino, percorrendo le strade della rettitudine. Financo si assiste al farisaico comportamento di chi si permette di stigmatizzare, per rimanere nel solco dell’evangelo, la pagliuzza nell’occhio dell’altro, mentre la trave nel suo occhio è abnorme e macroscopica. Gli è che gli insegnamenti di quel Maestro supremo a cui tutti debbono riverenza, il dolce Rabbi di Nazaret, il quale ripetè spesso che "chi è senza peccato fra voi, scagli la pietra", sono dai molti, e dai politici in primis, non solo disattesi ma traditi: massime da coloro, i più colpevoli, che si cingono i fianchi della veste immacolata del battesimo, si professano cristiani e spargon voci di comportarsi come tali. Mentre l’apostolato non ha affatto bisogno di trombe, né di fanfare: opera nel silenzio e nella preghiera, quella del cuore prima, le altre –chi vi crede- solo poi.
"Esiste una sola morale, come esiste una sola geometria. Mi si opporrà che la maggior parte degli uomini ignora la geometrìa. E’ vero, ma ogni uomo se appena la studia un po’, vi si trova d’accordo. Così gli agricoltori, i manovali, gli artigiani, non hanno mai seguito dei corsi di morale, non hanno mai letto il De finibus di Cicerone, né le varie Etiche di Aristotele: ma non appena riflettono un po’ sull’argomento, diventano senza saperlo discepoli di Cicerone: il tintore indiano, il pastore tartaro e il marinaio inglese, riconoscono allo stesso modo il giusto e l’ingiusto… La morale non sta nella superstizione, e neppure nelle cerimonie; e non ha niente di comune coi dogmi. Non ripeteremo mai abbastanza che mentre i dogmi delle religioni sono diversi fra loro, la morale è la medesima fra tutti gli uomini che sanno far uso della ragione. La morale ci viene dunque da Dio, come la luce. Le nostre superstizioni non sono che tenebre. Rifletti, o lettore: applica questa verità, e traine le conseguenze". E’ la voce "Morale" del Dizionario filosofico del Voltaire, datata 1764: mai cronologia fu più aleatoria, essendo cotali sacrosante parole universali per tutti i popoli e valide per ogni essere umano che abbia il concetto del bene e della rettitudine ben levigata a colpi di squadra e mazzuolo.
Laddove un filosofo illuminato nel gran secolo, il Settecento, ha indicato la via, oggidì solo scampoli di coloro che crédonsi gli epigoni, possono portarne la fiaccola. Le conciliazioni importantissime e grandiose che la Chiesa (dal Concilio Vaticano II) e gli esponenti del mondo della Luce senza tramonto, per usare un eufemismo, consentirono al fine di impostare senza tentennamenti un cammino comune, le cui linee maestre forse permangono ascòse, perché tempi di fanatismi ora sono evidentemente emersi, rappresentano pur sempre la fiaccola intramontabile, l’arca dell’Alleanza del buon fine dei popoli. Pure, non mancherà di tornare il sereno, e dall’alto come dal basso l’Etica sarà la guida di capi, di popoli e di chiese. Come era un tempo, sin dall’inizio dei tempi, secondo la legge di Melchisedek.


Bar.Sea. (Francesco Giordano)


Pubblicato su Sicilia Sera n° 331 del 1 agosto 2010

Morte ai preti pedofili: lo dice anche la Chiesa

Autorevole insegnamento della Santa Sede

Morte ai (preti) pedofili: ora lo dice anche la Chiesa


La prestigiosa parola di padre Scicluna in riparazione agli abusi dei sacerdoti, può essere un valido suggerimento ai nostri politici – Anche in antichi tempi si puniva così la pederastìa -


La parte di opinione pubblica ancor pervasa da quelli che un tempo si usava definire sani principi, rimane affatto orripilata nel leggere –e gli operatori della informazione hanno in tal senso una gravissima responsabilità- gesta turpi di abominio nei confronti di minori, casi spaventosi di pedofilia i quali vengono sovente amplificati ed a volte descritti ne’ loro macabri particolari, quasi soddisfacendo a sorta di sporche voglie di conoscenza, di taluni. Chi poi ha il dono de’ figlioli, e cerca di educarli secondo l’Etica in senso assoluto, avverte un tale sdegno, se ha ancor sangue nelle vene, da chiedere all’Altissimo di contenersi: tale crediamo sia reazione prettamente umana. Da parte nostra, ed anche da queste colonne, più volte elevammo la nostra voce a perenne e perpetua condanna di tali assassini: per i quali uno stato che si dica civile, non può che comminare l’estinzione di quella che non è più vita, ma offesa al genere sociale: ossia, metterli a morte.
Per fortuna, comunità statali sostenute dai popoli delle nazioni soggette (dagli Stati Uniti al Giappone, dall’Arabia Saudita, tanto criticata per altri versi, alla Cina: quindi i popoli più numerosi della terra) mantengono nel loro ordinamento giudiziario la pena di morte, per delitti tanto gravi e pericolosi per la società. Triste primato all’inverso, quello dell’Italia, che più volte anche in consessi internazionali, invece di difendere la vita dei piccoli sin dal concepimento, si fece indegna portavoce della abolizione della pena capitale, sancendo così punizioni affatto inadatte a tali generi di crimini. Uno stato etico non può e non deve che comminare l’estinzione fisica di codesti esseri, che da se medesimi si autoescludono dal genere umano. Questo nostro pensiero, sappiamo essere minoritario nella opinione pubblica italiana: epperò, anche in seguito ai casi vergognosi di recente scoperti, se il più alto consesso religioso, ossia la Chiesa Cattolica ed Apostolica Romana, si esprime ufficialmente, seppure riguardo ai preti accusati e confessi di pedofilia, a favore della loro morte, la caratura della questione muta, a parer nostro, di molto. Sarebbe infatti un bene che i colleghi giornalisti, adusi a cincischiare e trastullarsi con amenità, facessero rimbalzare continuamente le parole del promotore di giustizia della Congregazione per la Dottrina della Fede, padre Charles Scicluna, il quale il 29 maggio ha guidato in San Pietro una preghiera di riparazione per i delitti commessi dai sacerdoti pedofili.
In questo autorevole consesso, ha egli affermato la parola di Dio, per coloro che vi credono, nel noto passo evangelico (più volte da noi rammentato, e finalmente eretto a vessillo in modo perfetto, dalla Santa Sede) secondo cui "Chi scandalizza uno di questi piccoli che credono, e' meglio per lui che gli si metta una macina da asino al collo e venga gettato nel mare". Il Padre Scicluna ha quindi precisato quale deve essere il comportamento verso i sacerdoti pedofili, rifacendosi a San Gregorio Magno: "chi dopo essersi portato ad una professione di santità distrugge altri tramite la parola, con l'esempio, sarebbe davvero meglio per lui che i suoi malfatti gli fossero causa di morte essendo secolare piuttosto che il suo sacro ufficio lo imponesse come esempio per altri nelle sue colpe, perchè tendenzialmente se fosse caduto da solo il suo tormento nell'inferno sarebbe di qualità più sopportabile". Secondo il promotore di giustizia nominato dal Papa, "la Chiesa ha sempre avuto cura per bambini e deboli" e considera il bambino "icona del discepolo che vuole essere grande: accogliere il Regno di Dio come un bambino significa accoglierlo con cuore puro, con docilità, abbandono, fiducia, entusiasmo, speranza". Ma "questa icona così santa è calpestata, infranta, infangata, abusata, distrutta". Per questo "esce dal cuore di Gesù un grido di eco profonda, 'lasciate che i bambini vengano a me: non glielo impedite, non siate d'inciampo nel loro cammino verso di me, non ostacolate il loro progresso spirituale, non lasciate che siano sedotti dal maligno, non fate dei bambini l'oggetto della vostra impura cupidigia… Accogliere il Regno di Dio come un bambino significa accoglierlo con cuore puro, con docilità, abbandono, fiducia, entusiasmo, speranza. Il bambino ci ricorda tutto questo. Tutto questo rende il bambino prezioso agli occhi di Dio e agli occhi del vero discepolo di Gesù. Quanto invece diventa arida la terra e triste il mondo quando questa immagine così bella e' calpestata… Quanti peccati nella Chiesa per l'arroganza, per l'insaziabile ambizione, per il sopruso e l'ingiustizia di chi si approfitta del ministero per fare carriera, per mettersi in mostra, per futili e miseri motivi di vanagloria". Inoltre colui che si può arguire essere la longa manus di Benedetto XVI in casi così gravi, ha ricordato altro determinante passo della Sacra Scrittura, secondo cui è meglio espungere il membro corporale che infetta il tutto, che mantenerlo intatto: ovvero isolare i colpevoli. "Diversi Santi Padri interpretano la mano, il piede, l'occhio come l'amico caro al nostro cuore, con cui condividiamo la nostra vita, a cui siamo legati con legami di affetto, concordia, fraternità. C'e' un limite a questo legame… Se il mio amico, il mio compagno, la persona a me cara è per me occasione di peccato, è per me un inciampo nel mio peregrinare io non ho altra scelta secondo il criterio del Signore se non di tagliare questo legame. Chi negherebbe lo strazio di una tale scelta? Non è forse questa una crudele amputazione? Eppure il Signore è chiaro: è meglio per te entrare da solo nel Regno, senza una mano, senza un piede, senza un occhio, che con il mio amico andare nella Geena, nel fuoco inestinguibile. Questa immagine così forte delle membra, del corpo, ci mette senza troppa confusione di fronte allo specchio della nostra coscienza".
La Chiesa Cattolica guidata con sapienza da Papa Benedetto, sta davvero vivendo una nuova primavera d’amore e di fede, laddove da codeste parole dure ma estremamente necessarie, si può trarre un insegnamento al popolo: soprattutto i politici del nostro Parlamento, molti apparentemente professantisi cristiani, dovrebbero adoprarsi al fine di applicare anche in uno stato laico ma rispettoso della sensibilità religiosa, le indicazioni che provengono da oltre Tevere. Alle quali ci permettiamo di aggiungere il noto passo del Levitico sulla pederastìa, qui trascritto, per maggiore ampiezza incisiva, nella autentica lingua del Magistero, in Latino: "Qui dormierit cum masculo coitu femineo, uterque operatus est nefas: morte moriantur; sit sanguis eorum super eos" (Lev.20,13).
E se qualche bello spirito avesse da obiettare, anche in senso anticlericale, che le pene anti pederastìa sono inapplicabili a’ tempi moderni, o che da parte della Chiesa non è il caso di insistere, si potrebbero ricordare molti casi in cui lo Stato dell’antica Roma, il quale soggiaceva a ben altra religione che la Cattolica, era assolutamente severo nei confronti dei delitti contro la pudicizia. "Ciò mosse Caio Mario, generale, allorché proclamò la legittimità dell’uccisione del tribuno militare Caio Lusio, figlio di sua sorella, da parte del soldato semplice Caio Prozio per aver osato adescarlo a farsi violentare" (Valerio Massimo, Detti memorabili, VI, I 12). La grande tradizione delle antiche civiltà ben più del Cristianesimo, forgiò leggi severissime contro le inversioni sessuali e, proprio perché quelle assalivano parti della popolazione, si premurò di reprimerle con la maggiore durezza. Per fortuna dei tempi antichi, non vi era l’amplificazione scandalosa che di cotali delitti la TV oggidì compie, quasi diffondendo –pur nella forma anodina di servizio offerto, per cui naturalmente si può scegliere quale programma seguire: il medesimo ragionamento si applica alla rete Internet, non demonica in sé , ma cangiante per l’uso che se ne fa- semi di dissoluzione. E’ quindi importantissimo che da parte della Santa Sede, la quale combatte una santa battaglia contro le perversioni del mondo e del suo medesimo corpo (mistico, nella lettura del credente), affiancata a quella, altrettanto sacrosanta, per il recupero della antica liturgia in lingua Latina, mercé il Motu proprio "Summorum Pontificum" che vuole la celebrazione del rito preconciliare al fianco dell’Ordinario nelle lingue nazionali, vi sia stata tale autorevole indicazione magisteriale, di un percorso chiaro e netto contro ogni forma di deviazionismo e di deteriore lassismo. I tempi odierni, senza mai dimenticare il messaggio d’amore che la Tolleranza suggerisce, non consentono del resto ulteriori tentennamenti. Parole dure e chiare, in evo oscuro. Ove senza alcun dubbio, anche tra le tempeste e le procelle quasi misteriose e la sfiducia che avvolge ciascuno nei momenti buj, mai è assente quella mano fraterna, quella Luce dell’Angelo, che presiede al reggimento degli universi. Con le ispirate parole di Gerolamo Savonarola (dalle Meditazioni sul Salmo 50): "L’abisso della misericordia è più grande dell’abisso della miseria, perciò l’abisso colmi l’abisso, l’abisso della misericordia colmi l’abisso della miseria".


Barone di Sealand (Francesco Giordano)


Pubblicato su Sicilia Sera n° 331 del 1 agosto 2010

Carlo Delcroix, eroe d'Italia e aedo del dolore


Un soldato ed eroe oggi dimenticato


Carlo Delcroix, aedo del Dolore


Gloriosamente mutilato nella Grande Guerra, seppe ascendere alle vette del lirismo narrativo e
Fu simbolo degli Invalidi per cause militari – La sua parola sempre viva -
 
Quando la nera Signora si avvicina tanto da ghermire il flebile corpo del dio in forma d’uomo, naturale è che egli resista: battaglia estrema, ma ove la si vinca, rimane per sempre il segno. Abilità suprema dell’anima è trasfondere la cicatrice, il marchio perenne della Tenebra, in Luce infinita a cui possano abbeverarsi i miseri, gli altri fratelli colpiti dal dolore. Potrebbe essere condensata così la vita apostolare di Carlo Delcroix, militare eroico, grande italiano, medaglia d’argento al Valor Militare, figura oggidì –in tempi di oblìo di fulgidi esempi di immemore patriottismo- dimenticata dai molti, e però ricordata da quanti credono ancora nella virtù sublime del sacrificio che si rende santo, nell’esempio che rimane a governare i sopravvissuti. In tempi ove taluni, tra mille difficoltà, si ingegnano a celebrare il cento cinquantesimo della Unità italiana, mentre altri la minano artatamente, a noi pare assolutamente necessario ricordare questo grande figlio della nostra Patria, che visse sino a non molti anni fa, martoriato sì nel corpo ma lucidissimo nell’anima, trasparente megafono della vita come era anche ferita vivente della violenza che gli ghermì, senza tuttavolta fiaccarlo, le carni.
Come spiegare a’ giovani del XXI secolo chi fu, chi è ancora Carlo Delcroix? Si risponderebbe subito, senza retorica ma con convinzione assoluta: un eroe. Un eroe vero, non costrùtto nel mito, non incasellato in una bolgia di ipocrisie, non immerso in un oceano di menzogne: un eroe autentico, un apostolo del Dolore, questo "dio senza altari", come egli scrisse, che diede forza e vividità a coloro che come lui furono duramente colpiti dalla guerra. Poiché se vi fu conflitto che chiuse il Risorgimento e cementò per sempre quella Unità d’Italia che in queste settimane si celebra, a volte senza memoria, questo è stato il primo, ovvero la cosiddetta "grande Guerra". In quella pugna micidiale e fervida di sangue e di gloria, decine di migliaja d’Italiani, dal più profondo Sud alle lande nordiche, unironsi al Comando supremo del Re –che allora davvero incarnava la forza, il faro della Patria: quel Re soldato che fu tra loro, in trincea, al convegno di Peschiera difese la Nazione dall’arretramento quasi voluto anche dagli Alleati; quel Vittorio Emanuele III che anni dopo garantiva ancora, còlla sua persona piccola ma d’acciajo, la continuità dello Stato, come anche il Presidente emerito Ciampi ha pubblicamente riconosciuto nel 2003- per compire il destino inevitabile. Pugna sentita, come non lo fu la seconda guerra; pugna olocausta, ove molti si gettarono in ardente estasi.
Tra i tantissimi, il tenente del 3° Bersaglieri Carlo Delcroix di Firenze, ove era nato nell’agosto del 1896, papà belga, mamma italiana: coll’ardore dei vent’anni aveva svolto coraggioso servizio nelle Alpi, nella Marmolada, conquistato il Col di Lana. E fu proprio in una sventurata esercitazione, per salvare delle vite di soldati, che si svolse l’incidente che lo mutilò alle mani e lo privò della vista. Così il racconto del collega tenente Minghetti: "Delcroix era sulla neve, in una pozza di sangue. Aveva perduto le mani e gli occhi ed appariva ferito in molte altre parti del corpo… Gli occhi afflosciati e senza vita erano imbevuti di sangue nero, il viso e le labbra gonfie erano come bruciati dalla vampa dell’ esplosione. Centinaia di schegge gli si erano conficcate in tutto il corpo, specialmente nell’ addome e nel torace, con ferite profonde… I moncherini delle braccia mostravano un impasto sanguinolento di muscoli, tendini, nervi e ossa violentemente spezzate." A dispetto delle enormi perdite di sangue, la giovinezza prorompente gli impose di vivere, ed egli visse. Era un appassionato degli studi,  Letteratura e Giurisprudenza: ricevette poi la laurea honoris causa. Mùtilo e cieco, non lo era nell'oratoria, di cui divenne maestro con insperata abilità: pronunziava comizi infuocati ai militari ed ai civili, divenendo in pochi anni il simbolo dei Mutilati d’Italia, della cui Associazione Nazionale fu il Presidente. Anche fondò e presiedé l’Unione Italiana Ciechi. Ebbe una retorica brillante, e non si sottrasse agli onori che il Fascismo gli tributò: del resto, era proprio il regime di Benito Mussolini che aveva dato ricetto e riscatto ai reduci, agli invalidi, ai mutilati della guerra, inquadrandoli non solamente sotto il profilo lavorativo ed amministrativo, nella nuova Nazione plasmata dallo Stato corporativo: ma ne aveva fatto quasi una bandiera, una mistica possente delle rivendicazioni nazionali. Carlo Delcroix nondimeno ebbe una assaj decisa e marcata propria personalità per soggiacere compiutamente all’autoritarismo fascista. La sua figura del resto fu sempre al di sopra di ogni sospetto di partigianeria, unanimemente riconosciuta quale unificatrice e simbolica dei mutilati combattenti eroi autentici della Patria. Pertanto rimaneva Presidente dei Mutilati anche nel secondo dopoguerra, e nel 1953 diveniva Deputato al Parlamento per il Partito Nazionale Monarchico. Era un convinto assertore della figura sacrale della Monarchia sabauda quale collante necessario della costruzione della Patria, e tale rimase, nei discorsi che per tutti gli anni Sessanta tènne nelle piazze della Nazione, per il PNM e poi il PDIUM, anche detto "Stella e Corona". Sposato e padre di figliolanza, Carlo Delcroix si spegneva ottantenne a Firenze nell’ottobre del 1977.
A noi rimane indelebile la sua parola di letterato: perché la vena poetica del Delcroix fu fervida e feconda. Chi ancor oggi, non più ristampati ma presenti nei negozi di libri vecchi, si imbatte ne "I miei Canti", in "Un uomo ed un popolo" (biografia di Mussolini commovente, alcune pagine della quale divennero antologiche: "Io non ho mai visto il Duce, ma dalla sua voce…") e "Quando c’era il Re", per citare tre fra i suoi molti libri, scopre una umanità immensa tra le piaghe dilacerate di un uomo felice anche nella sua sofferenza, e profondamente cristiano. Il libro che più disvela l’animo del letterato Delcroix è per noi "Sette Santi senza candele", del 1925, pubblicato, come quasi tutti, dal Vallecchi di Firenze: in esso la vena narrativa in parte di intonazione dannunziana –ove più tardi si scoprono influssi del Papini- si scioglie in un lirismo prosastico infinito, quasi sperdentesi tra le pagine ma coll’immancabile filo rosso della convinzione di essere l’araldo, la voce immarcescibile di coloro che non hanno voce, i "santi senza candele" appunto, i mutilati che tornarono alle loro case ed hanno, dopo aver versato il sangue per la Patria, diritto a quei riconoscimenti che non si spengono dopo i consueti piagnistei dell’immediato. "Chi nel ferro della catena sa martellare armi e corone o nella pietra del carcere può scolpire immagini e are, chi sa trarre nutrimento dalle sue ferite e ispirazione dalla sua pena, non sarà mai battuto, mai vinto. E io non sono un cieco perché credo e cammino; non sono una vittima perché lotto ed amo; non sono un mendico perché pòsso e dono; io sono un uomo da invidiare o da compiangere, come tutti gli uomini, con una vittoria di più, con un’arma di meno…". Egli si accorge che il monumento delle sofferenze umane, il Dolore, ha gli altari deserti: si fa quindi di questo nume sacerdote: "L’uomo eresse roghi e levò are a tutte le divinità ma non levò mai un tempio al dolore: questo dio sconosciuto visitò genti, attraversò le età e non ebbe dimora né trovò credenti ma la sua vendetta e la sua vittoria sono nella stessa incomprensione di quanti deprecando lo chiamano e rinnegando lo confessano non accorti di esserne invasi fino al delirio e posseduti fino allo spavento. Nessuno vi crede e tutti lo temono, nessuno lo accetta e tutti lo sentono che mai dio ebbe più testimoni e meno credenti". Adesso che si tenta pure di nascondere i testimoni contemporanei del dolore, esaltando quasi all’inverosimile il piacere pur di mascherare il resto, la voce di Carlo Delcroix appare quasi necessaria, forse più del tempo suo. Perché quando "l’umanità sarà sempre triste ma meno vile" avrà accettato, come nel dettato cristiano, il sacrificio quale "non più fato ma provvidenza: il dolore riconosciuto nume scopre il segreto della sua catena, annunzia i doni delle sue pene e il rimpianto diventa speranza e la necessità amore".
La poesia di Delcroix è infine un immoto volo, sulla scia dei grandi italici, verso la sublime ala della purezza: "Io non sono più quello che serravi \ al petto nell’angoscia del saluto; \ io sono un altro, un figlio sconosciuto, \ forse più tuo di quello che aspettavi… nulla è mutato presso il focolare, \ tu sei rimasta in me come quel giorno \ e pur non trovo né mi so trovare; \ dammi la mano e fammi andare intorno, \ non sono ancora stanco di cercare" (dedicata alla madre, L’altro figlio, da I miei Canti). Tempi di foschìe angosciose, di eclissi anche lunghissime, codesti: nondimeno, quel "sangue che è porpora di sole", in gratitudine all’anima del Delcroix, è necessario per continuare a sperare, per iniziare ogni giorno la rinnovata aspersione della vita.


Barone di Sealand (Francesco Giordano)


Pubblicato su Sicilia Sera n° 331 del 1 agosto 2010


 

martedì 6 luglio 2010

Benedetto XVI un uomo solo


Cinque anni di intenso pontificato


Benedetto XVI, un uomo solo


Necessaria la solidarietà fraterna al Pontefice che con coraggio e determinazione
combatte contro i mali diabolici anche della Chiesa – Poca ubbidienza -


Allorquando, nell’aprile di cinque anni fa, dal comignolo di San Pietro escì la fatale ‘fumata bianca’ ed il novello Pontefice si affacciò sul balcone centrale di San Pietro, auspicammo tutti che Joseph Ratzinger, scelto il gloriosissimo nome del Santo patrono d’Europa e defensor fidei della tradizione cristiana d’Occidente, ci ajutasse nel cammino della consapevolezza e dell’accrescimento di quella che il credente appella fede, di quel che il dubbioso appella senso etico; di quel certo ‘quid’ che lo gnostico, appella conoscenza. Dopo un lustro, appare a nostro avviso triste constatare come, da molte parti anche interne al corpo ecclesiastico nonché sacerdotale, l’azione spesso silente ma negli ultimi tempi energica di rinnovamento nel solco della Tradizione, di Benedetto XVI, sia contrastata ed addirittura osteggiata con vigore, da coloro che intendono prosperare su taluni passati atteggiamenti. Ciò sia detto senza formulare critiche per l’uno o l’altro degli aspetti, ma sforzandoci di essere obiettivi. Specie a fronte degli oltre ventisei anni del pontificato di Giovanni Paolo II il quale, per fortuna, nessuno più –come auspicò qualcuno- chiama ‘magno’ e sempre meno desiderano sia elevato alla santità.
Le contraddizioni, addirittura le evidenti visioni antitetiche che Benedetto XVI e Giovanni Paolo II hanno del modo di governare la Chiesa, mai come in questi ultimi mesi sono emerse con ‘sì grande evidenza. Ci si darà atto che, da queste colonne, all’epoca della sua elezione già precisammo che Papa Ratzinger si sarebbe rivelato ben altro che il suo predecessore: e così è stato. E però, mentre era giusta l’analisi di uno dei massimi teologi contemporanei, il professore insigne Hans Kung, giudicando fallimentare per il rispetto del progresso del cattolicesimo, il pontificato di Wojtyla, dissentiamo dal medesimo giudizio che il medesimo prof.Kung ha nelle settimane scorse formulato riguardo l’antico collega dell’Università di Tubinga, ora Santo Padre. E’ stato, più di ogni altro problema, l’affare insanguinato e doorosissimo della pedofilia, lo spartiacque indiscusso che ha permesso anche ai tentennanti ed agli incerti, di comprendere il vero ‘carattere’ del pontificato di Benedetto XVI ed il suo privato, non pertanto impossibile da condividere, dramma personale ed umano. Così la giornata organizzata nelle scorse settimane di maggio, a pro della persona del Pontefice, ha nelle immagini televisive restituito il volto di un signore anziano di oltre ottant’anni, evidentemente compiaciuto e confortato dalle espressioni affettuose che delegazioni di tutta Italia gli hanno pòrto in piazza San Pietro, volendo dirgli "ti siamo vicini in un momento di grande dolore collettivo". E’ la vicinanza, anche qui da noi resa esplicita, ad un uomo solo che guida un vascello in acque tempestose, con marinari sovente ribelli, indocili, pronti a comportarsi come il Giuda evangelico.
Non perciò nuovamente ripetere "un Papa che ha fallito" (questo fu vero per Wojtyla), ma essere accanto ad un uomo solo, che sta combattendo a viso aperto e "come pecora in mezzo ai lupi" (adesso è chiaro il significato della sua frase allora pàrsa enigmatica, poco dopo l’elezione), una pugna affatto perigliosa, laddove magna pars del suo clero si guarda bene dall’esercitare la virtù dell’obbedienza e di mettere in discussione l’operato degli ultimi decenni, per timore di recedere dal potere temporale, figlio diretto del "padre della menzogna", il demonio, che ha con successo comperato l’anima di molti. E’ stato molto chiaro, il Santo Padre, nell’Angelus di domenica 16 maggio: "Il male da combattere è il peccato.., a volte presente anche fra i membri della Chiesa…". Vero è che, in particolare mercé gli inevitabili equivoci di una stampa anticlericale in servizio permanente effettivo, la quale –serva dei poteri fanatici del laicismo di mestiere, ben più pericolosi negli ultimi anni, di un dogmatismo il quale pure permette, sotto certi limiti, la manifestazione di un pensiero in talune forme libero e persino, dopo il Vaticano II, pertinente all’eterodossìa- ha evidentemente riportato compiaciuta episodi schifosi di corruzione di sacerdoti, ed a volte anche suore, a danni di minori, in nome delle statistiche bisogna con onestà ammettere che essi sono in percentuale minima, a fronte dei cosiddetti ‘abusi psicologici’ (schiaffi od altro), conteggiati per fare massa nel novero degli scandali a sfondo sessuale.
E’ un attacco personale a Benedetto XVI che ha, come è stato detto, ben precisi mandanti e ben chiari fini. Non essendo questa la tribuna di alcun organismo ecclesiastico, possiamo parlar chiaro: gli ancor molto forti gruppi di potere ecclesiale (vedi il caso ignobile del capo dei Legionari di Cristo) avvinti in abbraccio mortale al pontificato wojtyliano, non possono perdonare l’intransigenza personale ed il rigore etico di Joseph Ratzinger Pontefice Massimo, e cercano in ogni modo di minarne l’autorità laddove essa appare, come nel caso recente della visita a Malta, rafforzata. In quest’ultimo frangente, mai assistemmo –non rammentiamo nel passato che ‘pentimenti’ o sedicenti tali di fatti accaduti secoli prima, del pur non manchevole di lati positivi Papa Wojtyla, da noi criticato molto anche durante il suo regno- a commosse espansioni di lacrime come accadde nelle settimane scorse nella cattolicissima Malta, durante l’incontro del Pontefice con alcune vittime di abusi sessuali da parte di sacerdoti. Le stesse ex vittime poi raccontavano ai giornali del pianto struggente dell’anziano Papa, e della sua solenne promessa: "farò in modo che non accada mai più". Egli è uomo da mantenere quel che afferma. Del resto, anche il tantissimo criticato accostamento della pedofilia, anche clericale, còlla omosessualità, non proviene da menti artatamente zèppe di pregiudizi, ma dalla Bibbia, dalla parte anzi sua più antica: "Se uno giace con un maschio come si giace con una donna, ambedue commettono un’abominazione: dovranno morire, su di loro ricadrà il loro sangue" (Levitico 20, 13). Le parole di Mosè sono estremamente chiare; e Gesù: "Ma chi scandalizzerà uno di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa una macina d’asino al collo e fosse gettato nel profondo del mare… vi dico infatti che i loro angeli nei cieli vedono continuamente la faccia del Padre mio che è nei cieli" (Mt. 18, 6-10). Tutto il passo del Divin Maestro è di una eloquenza senza fronzoli: e sarebbe il caso che anche la legge laica punisse gli assassini pedofili con metodi esattamente identici a quelli suggeriti da lui.
La solitudine del Papa Benedetto appare lunare altresì laddove, spostato il campo dalla decisa azione antipedofilia intrapresa, si osserva come i suoi ordini in tema di magistero non vengano applicati se non in minima parte: sia sufficiente l’evidenza del fatto che il motu proprio "Summorum Pontificorum" dalla sua volontà emanato tre anni or sono, ossia l’obbligo per ogni diocesi di celebrare la Messa secondo il rito tridentino, quindi in lingua latina come avveniva prima della riforma conciliare, è in molte parti d’Europa disatteso, quando non vilipeso e criticato apertis verbis. Per fortuna in Italia, qui e la, si avvertono intenzioni positive: a Bologna persino il Cardinale Arcivescovo Caffarra, dopo aver disposto che ogni domenica la Messa latina, già affollata da molti giovani, sia celebrata in una chiesa, ha egli stesso concelebrato secondo l’intramontato rito, dando un luminoso esempio ai confratelli delle altre diocesi della nostra Patria.
Non che Papa Ratzinger sia esente da errori: notammo infatti che, forse per la sua formazione inserita da molti decenni nelle gerarchie della Santa Sede, poco o punto incisiva è la parola sua intorno al dilacerante problema del lavoro e della disoccupazione, che nella Italia di oggi colpisce le fasce sociali più deboli e sempre meno tutelate: mentre la Chiesa se tende a tamponare con soluzioni in stile Caritas (fra l’altro sovvenzionata dagli enti pubblici dello Stato), non alza solennemente la voce con l’enfasi che servirebbe, contro gli sfruttatori del lavoro in ogni forma. Persino Pio XII negli anni dell’immediato dopoguerra, era affatto incisivo in tal senso, anche per contrastare il sindacalismo comunista. Inoltre, le mancate chiarificazioni del Santo Padre sull’annoso problema del matrimonio (e delle sue conseguenze, mentre si diffondono sempre più i divorzi con le farraginose cause di annullamento, che andrebbero semplificate per far rifiorire i nuovi matrimoni e soprattutto per liberare la Chiesa dal giogo di Mammona), riportano a quella liberazione dalle "pompe di Satana" che Benedetto XVI richiamò nella omelia della notte di Pasqua appena trascorsa, collegandola al Battesimo ed al libro di Enoch: per chi non l’ha compreso, un testo considerato apocrifo ma dènso di misticismo esoterico, preso ad esempio dal più altro scranno del magistero petrino.
E se "ricostruire la tunica di Cristo", come Benedetto XVI ha affermato non lunge a Lourdes, è compito soprattutto di cristiani battezzati, ci si rende conto di quante lacerazioni codesta veste nel suo simbolo, abbia accettato con copiose perdite di sangue: ogni sforzo deve auspicarsi, senza deflettere di un millimetro, per recuperare le forze e le stille di codesto liquido vitale. Il canale primo e privilegiato è, come jeri come sempre, la Grande Madre: Vergine beatissima dei popoli e delle nazioni, perpetuo soccorso di coloro che la invocano con fiducia, rosa mistica al centro della croce dalle eguali braccia che comprendono l’universo intiero: "sicut in caelo et in terra". Era la medesima divisa della Tabula Smaralgdina: "come in alto così in basso, per la bellezza dell’Unità".

Barone di Sealand (Francesco Giordano)


Pubblicato su Sicilia Sera n°330 del 4 luglio 2010

venerdì 4 giugno 2010

Vergine bella che di sol vestita, poesia di Francesco Petrarca

Lettura della poesia "Vergine Bella, che di sol vestita" numero 366, dal Canzoniere di Francesco Petrarca; testo dal cod. Vaticano 3196, edizione di A.Chiari. Sottofondo musicale Fuga in D minore BWV 538 'Dorian' per organo, di Johann Sebastian Bach. Immagine di S.Maria dell'Aiuto, quadro cinquecentesco venerato nell'omonimo santuario in Catania. Voce recitante di Francesco Giordano.

martedì 1 giugno 2010

Falso oro circolante nel mondo

Interessanti notizie dal fronte finanziario

Non è tutto oro (vero) quello che riluce…

Il mercato finanziario si scopre, in piena crisi, possedere lingotti di falso oro, in realtà al Tungsteno – Sia gli Usa che la Cina responsabili del colossale imbroglio -

Forse qualcuno rammenta una delle più celebri pellicole di James Bond, della metà degli anni Sessanta, con protagonista l’eccellente Sean Connery: "Missione Goldfinger": è la storia di uno speculatore intelligentissimo, che falsifica l’oro della più celebre riserva aurea americana, quella di Fort Knox, e sostituisce ivi i lingotti di oro autentico con alcuni con l’anima di tungsteno (un metallo dal peso specifico molto simile all’oro). Se codesta all’epoca era fantasìa, si sappia che la realtà, forse ispirata al celebre film, la supera oggidì. Si è infatti saputo, da qualche settimana, che nelle banche di Hong Kong, ex colonia ora città stato facente parte della Repubblica Popolare Cinese, sono stati trovati dei lingotti d’oro in realtà pieni di tungsteno. Provenivano tutti dagli Stati Uniti. I documenti pubblicati fanno sapere che circa quindici anni fa, all’epoca della presidenza Clinton (coadiuvato da Robert Rubin, Alan Greenspan e Lawrence Summers) circa 1,5 milioni di lingotti di tungsteno da 400 once furono sfornati da una sofisticata industria metallurgica americana. Successivamente 640.000 lingotti furono dorati e spediti a Fort Knox dove tuttora sono. Esistono copie dei documenti di spedizione che attestano date, quantità e peso dei lingotti consegnati a Fort Knox. Il tungsteno ha peso specifico molto simile all’oro ma costa relativamente poco (circa 20$ al chilo). Dal rapporto peso/volume un lingotto di tungsteno non si distingue da un lingotto d’oro. Il resto dei 1,5 milioni di lingotti di tungsteno furono comunque dorati e immessi nel mercato.
La grandissima richiesta di oro da parte del mercato, negli ultimi mesi di enorme crisi finanziaria, ha inoltre messo in evidenza che, a parte i falsi lingotti, quelli venduti per esistenti, in realtà non esistono.
Nell’ottobre 2009 successe un fatto spiacevole: J.P. Morgan e Deutsche Bank (strettamente sorvegliati dalla Bank of England) che avevano precedentemente venduto Gold Futures (lingotti virtuali) al prezzo di circa 1000$/oncia chiesero ai legittimi proprietari se quell’oro poteva essere da loro ricomprato a 1250$/oncia per evitare di dovere consegnare quei lingotti. Lingotti che evidentemente non possedevano. Ecco una delle tante falsità che hanno corrotto il mercato economico mondiale, alla radice della crisi finanziaria, che è in ultima analisi crisi del capitalismo e quindi del modello occidentale. Ma in questo la Cina, che negli ultimi mesi ha incrementato l’acquisto di oro dall’Europa, invogliando i privati ad aumentare le proprie riserve auree, superando per volume di acquisti persino l’India (e la Russia, la quale ha intenzione di aumentare dal due al dieci per cento il proprio forziere aureo: segno che la dirigenza Putin-Medvedev non vede all’orizzonte la fine della tempesta sociale…), contribuisce alla truffa, se così si può appellare. C’è infatti sul mercato, proprietà dello stato di Cina, una ditta che ha per nome Chinatungsten. La ditta cinese spiega pubblicamente, attraverso il sito Internet, che il tungsteno è "environmental-friendly", e che mentre la lega oro-tungsteno non funziona per svariati motivi, una moneta con l’anima di tungsteno e la copertura di oro non potrà mai essere identificata come contraffazione da misure di densità. Chinatungsten precisa molto bene come funziona: "in dettaglio il tungsteno puro sotto forma di dischi, piatti, fogli, anelli etc.. se rivestito con uno strato di oro acquisterà la sua tipica brillantezza e potrà così rimpiazzarlo". Nel sito dell’ente campeggia un’allettante fotografia di lingotti d’oro marcati. Falso oro. Ed un’avvertenza: "per cortesia non usate i nostri prodotti di tungsteno placcato oro per scopi illegali".
Da codeste verifiche, ognuno può dedurre in che società ci è toccato di vivere, nascendo nel XX secolo ed immettendoci, invero con fiducia forse idealizzata ed inevitabile, nel XXI. Invero i falsificatori di oro e metalli son sempre esistiti: epperò, laddove non avevano connivenze dei monarchi, erano puniti còlla massima severità, dai potenti di turno, nei secoli passati. Potremmo forse consolarci colla poesia, se Dante il sommo poeta immette senza speranza veruna i falsatori di metalli nelle Malebolge dell’Inferno (canti XXIX sgg.), "per leccar lo specchio di Narciso", descrivendoli quali pestilenti, scabbiosi ed intenti al grattamento perpetuo, nonché idropici: punizioni invero terribili, che in ogni caso, per coloro che hanno una fede, saranno comminate nel mondo spirituale.
Poiché tuttavolta noi per il tempo di uno scoccàr di freccia, siamo nel passaggio di codesta vita, che sia almeno consapevole l’evidenza la quale ci informa (da qui la necessità ineludibile, in una società che non ha più niuna scusante per lacerarsi nell’ignoranza) che i fondamenti delle economìe degli stati nazionali hanno nel loro cuore materiale, il quale dovrebbe essere garantito dalle riserve auree, dei falsi lingotti. O perlomeno dei lingotti che vengono spacciati per veri. Sarebbe opportuno, ad esempio, che l’attuale governo italiano ci informasse sulla reale proprietà delle riserve auree della Banca d’Italia, la quale sin dall’alba del duemila, per statuto, è un istituto privato e non più tesoreria dello Stato. Per coloro i quali ancor si illudono che la parvenza delle istituzioni pubbliche esistano (oltre i ludi cartacei delle elezioni…), consideri attentamente l’anzidetta questione, e la colleghi alla proprietà dell’oro. E’ facile, unire i punti. La soluzione nondimeno, per gli impreparati ed i fragili di intelletto, può portare al mentale sconquasso. Per alcuni: che infatti, si adagiano nel rimbecillimento quotidiano dei programmi-scemenza della televisione. Fortunatamente, il nostro popolo serba ancora una parte (quanto grande e presente?…) di sanità etica: unica speme, innanzi alle tenebre.

Bar.Sea. (Francesco Giordano)

(pubblicato su Sicilia Sera n° 329 del 28 meggio 2010)